lunedì 23 maggio 2016

Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra - Il 1917 prima di Caporetto


Due avvenimenti sconvolgenti, quali la caduta in marzo del governo zarista russo e l’entrata in guerra (6 aprile) degli Stati Uniti d’America contro gli Imperi centrali, segnarono nei primi mesi del 1917 l’inizio di una nuova epoca storica.

Intanto l’Esercito italiano, nonostante la depressione degli animi e i contrasti tra potere politico e potere militare, poteva godere di una vera e propria tregua, poiché dai primi di novembre 1916 a metà maggio 1917 non ci furono operazioni militari di rilievo. Questo permise agli uomini in armi di ritemprare le forze, mentre le giovani reclute della classe 1897 portavano al fronte, secondo A. Omodeo, “un’ondata di freschezza”.

Invece l’esercito austro-ungarico, meno omogeneo di quello italiano in quanto  costituito da soldati di varie nazionalità, era profondamente minato dall'indisciplina.
Infatti frequentemente accadeva che ufficiali romeni o cechi o boemi disertassero per informare gli italiani sulle operazioni che stava preparando il proprio esercito,  nei cui baraccamenti non mancavano mai le scritte inneggianti alla pace, nonostante il costante impegno dei comandi a farle cancellare.

Anche in Germania era grave il contrasto tra il potere politico e quello militare. Contro quest’ultimo s’indirizzava, in una prima fase, il malcontento delle popolazioni. Tuttavia nell'estate del 1917 entrambi i poteri persero la fiducia di tutti gli strati sociali, nei quali si andava sempre più diffondendo il desiderio che fossero iniziate trattative di pace.

Sul fronte francese, fra l’aprile e l’ottobre 1917, circa 40mila soldati si ammutinarono, compiendo atti d’indisciplina e manifestando al canto dell’Internazionale. D'altronde tutti i  francesi erano esausti per i sacrifici patiti fin dall'agosto 1914,  e a Parigi soldati e scioperanti fraternizzavano, inneggiando alla rivoluzione russa e alla pace.        
Allo scoppio della rivoluzione a Pietrogrado (12 marzo 1917) il giornalista Rino Alessi informava il suo direttore che gli avvenimenti di Russia non  avevano “nessuna ripercussione” al fronte e che l’esercito rimaneva “calmissimo”.

In effetti i comandi superiori italiani avevano ordinato agli ufficiali di spiegare ai soldati che gli avvenimenti russi dovevano essere considerati come un vera fortuna per l’Intesa, poiché il governo rivoluzionario avrebbe certamente dato maggiore impulso  alla guerra contro gli Imperi centrali.
In aprile, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, aumentò la speranza in una svolta decisiva foriera di pace.

Il fermento dovuto a questi avvenimenti internazionali si traduceva, dunque, nella speranza di una imminente fine della guerra. Ma a partire dal 12 maggio ebbe inizio la X battaglia dell’Isonzo a cui seguì l’offensiva dell’Ortigara. Il sostanziale fallimento di entrambe le operazioni produsse sullo spirito delle truppe conseguenze considerate gravi e preoccupanti dalle autorità politiche e anche da alcuni comandanti militari. Ai primi di luglio Il Vescovo di campo, mons. Bartolomasi, ritenne suo dovere recarsi a Roma  per informare della situazione il capo del governo Boselli.

Il gen. Cadorna diede sì l’ordine di sospendere i combattimenti, ma concedendo solo due mesi di tregua alle truppe, che a suo avviso non avevano esaurito il loro spirito combattivo. In effetti la tregua servì alla preparazione dell’undicesima battaglia dell’Isonzo che si prevedeva più impegnativa delle precedenti in quanto l’obiettivo principale era la conquista dell’altopiano  della Bainzizza. Questo preoccupava molto i politici. In particolare, il 1° agosto, l’on. Giovanni Amendola scrisse al ministro Bissolati, scongiurandolo d’intervenire affinché si rinunziasse all'offensiva, per non sottoporre le truppe ad una nuova e logorante prova.

Ma, contrariamente a quel che si pensava, i grandiosi preparativi della battaglia ebbero ripercussioni molto positive sullo stato d’ animo dei soldati, come se tutti sperassero che alla conquista della Bainzizza sarebbe seguita la pace.
L’andamento delle operazioni all'inizio fu incoraggiante, ma dopo pochi giorni fu evidente il loro fallimento: modesti furono i risultati territoriali dell’offensiva e del tutto negativi quelli strategici, dato che la nuova prima linea risultava più vulnerabile della precedente, mentre erano stati perduti circa 100mila uomini.

Ovviamente lo spirito delle truppe subì un nuovo tracollo, sempre per evidenti ragioni d’indole militare: la Bainsizza, infatti aveva dimostrato che la guerra di logoramento, mentre estenuava entrambe le parti contendenti, consentiva solo risultati locali, ma non portava all'attesa soluzione finale del conflitto.

Nel 1917 ci fu un vero e proprio scadimento disciplinare dell’Esercito italiano: aumentò il numero dei processi per reati d’indisciplina, insubordinazione e diserzione; non mancarono gli autolesionisti che diminuirono dopo il mese maggio, ma soltanto in seguito a due fucilazioni ammonitrici.
Spesso i militari in viaggio verso il fronte sparavano o lanciavano  pietre dai treni, insultavano i borghesi, gli operai e i ferrovieri considerandoli imboscati, effettuavano danneggiamenti ed altri atti di protesta, accompagnati da grida inneggianti alla pace.

Dal maggio all'ottobre 1917 si contarono circa 60 processi per ammutinamento con rivolta. In genere gli atti d’indisciplina nascevano spontaneamente, si svolgevano in forma disordinata, terminavano rapidamente dopo l’intervento dei comandi, prima che le repressioni fossero poste in atto. Le manifestazioni di protesta avevano luogo soprattutto al momento di tornare in linea ed erano originate per lo più dalla mancata concessione di licenze o dal mancato rispetto dei turni di riposo.
Soltanto in un caso le truppe forse protestarono secondo un piano preordinato: fu nel luglio 1917 a S.Maria La Longa, allorché una rivolta di eccezionale gravità si verificò  fra i soldati della brigata Catanzaro (141° e 142° reggimento fanteria).

Alcune settimane prima della rivolta, mentre il 142° reggimento si accingeva a ritornare in linea, si erano udite scariche di fucileria e grida di protesta, subito sedate dagli ufficiali. I carabinieri, dopo accurate indagini, il 14 luglio avevano individuato in nove militari i possibili istigatori di nuove proteste da mettere in atto in futuro. Questi furono fatti arrestare dal comando di brigata il 15 luglio, quando il reggimento si preparava a partire per la prima linea. Ma verso le ore 22,45 in entrambi i reggimenti con spari di fucile e grida di ribellione ebbero inizio manifestazioni di rivolta, provocate da “non pochi” facinorosi che, minacciando i loro commilitoni  rimasti nelle baracche trattenuti dagli ufficiali, tentarono d’invadere il paese con l’uso di bombe a mano e mitragliatrici. Negli scontri notturni morirono 2 ufficiali e 9 soldati, mentre furono feriti altri 2 ufficiali e 25 soldati. Tutta la VI compagnia del 142° si ammutinò, costringendo l’ufficiale comandante ad allontanarsi. I carabinieri, la cavalleria e le auto blindate, chiamati  in aiuto dai comandi, non intervennero perché nell'oscurità non c’era una separazione netta tra i ribelli e gli altri militari. All'alba la rivolta cessò e tutti raggiunsero i  reparti.

Al mattino furono fucilati 28 soldati: 16 perché arrestati “con le armi cariche, le canne ancora scottanti”, e 12 in seguito a decimazione della suddetta VI compagnia.
Verso le ore 11 la Brigata Catanzaro iniziò il trasferimento a Villa Vicentina, ma la repressione continuò nei giorni seguenti con altre 4 fucilazioni, 135 rinvii a giudizio di militari, l’allontanamento dalla brigata di 463 soldati e 33 ufficiali e sottufficiali nonché la sostituzione dei comandanti della brigata e dei due reggimenti e il deferimento al tribunale militare del comandante della VI compagnia.

Principale causa della rivolta sarebbe stata la propaganda sovversiva che esaltava la rivoluzione russa. Fra le cause secondarie bisogna, però, considerare la sospensione delle licenze ai numerosi siciliani del 141° e 142° e la convinzione dei soldati che il trasferimento in prima linea spettasse ad altra brigata e non alla “Catanzaro”, che era stata a lungo sul fronte carsico, ritenuto da tutti il più rischioso.

Il reato più diffuso nell’Esercito italiano era quello di diserzione, per il quale i condannati furono 10.272 nel primo anno di guerra, 27.817 nel secondo e addirittura 55.034 nel terzo.

Secondo il gen. Cadorna, la Sicilia era un covo pericoloso di renitenti e disertori.
La maggior parte di coloro che erano considerati disertori tornavano in trincea e morivano in combattimento: soltanto il 2% passava al nemico; il restante 98% era in buona parte costituito da uomini che non avevano avuto mai l’intenzione di abbandonare il reparto e che si erano assentati arbitrariamente per un brevissimo periodo oppure erano tornati in ritardo dalla licenza.
Numerosi erano i disertori che, pentendosi, facevano spontaneamente ritorno al reparto, dove venivano processati e rispediti in trincea.
Altrettanto di solito accadeva a  chi invece di tornare volontariamente era stato arrestato dalla forza pubblica.

Su 101.665 condanne per diserzione soltanto 370 furono condanne a morte; le altre furono condanne alla reclusione, dopo le quali i condannati dovevano in genere tornare in linea, al fine di impedire che la diserzione diventasse un mezzo per “imboscarsi” nelle prigioni.

Nel 1917 fu molto avvertita l’opposizione fra Esercito e Paese. Soldati e ufficiali si irritavano al pensiero che alle loro spalle ci fosse una nazione sostanzialmente estranea alla guerra. Infatti nelle città italiane continuavano ad essere regolarmente frequentati bar, teatri, locali notturni e negozi, ivi compresi quelli di lusso, mentre le fabbriche di automobili non sapevano più come soddisfare le esigenze dei privati e i gioiellieri lavoravano ad ornare le signore di perle e brillanti. Nello stesso tempo i giornali denunciavano illeciti guadagni e frodi nelle forniture militari.
Soldati ed ufficiali erano ossessionati dal fatto che l’Italia fosse piena d’imboscati. In particolare la fanteria odiava le altre armi (cioè: artiglieria, genio, servizi e cavalleria), perché erano meno esposte ai pericoli. In effetti annualmente la percentuale media delle perdite (morti + feriti) era del 39,8% per la fanteria, del 4,1% per l’artiglieria, del 4,2% per il genio, dello 0,3% per i servizi e del 3,5% per la cavalleria.

I fanti erano in grandissima parte contadini, quindi l’opposizione tra fanti ed imboscati divenne opposizione tra contadini e borghesi, tra contadini e proletariato urbano. I fanti sostenevano che i contadini non avessero nessuna strada per imboscarsi, mentre borghesi ed operai ne avevano cento. In particolare gli operai delle industrie, specie se operanti per la produzione di ciò che era necessario all'Esercito, ottenevano l’esonero dal servizio. Invece ai contadini per i lavori agricoli nel 1915 non furono concessi né esoneri né licenze straordinarie, mentre  nel 1916 ci furono brevi licenze e 2.438 esoneri e nel 1917 licenze temporanee di 30 o 40 giorni in numero superiore al passato.

Gli organi che dovevano deciderne la concessione erano diretti non da militari, ma da borghesi, da autorità locali, soggetti ad ogni forma di pressione. In proposito Arrigo Serpieri ha scritto “Grande e terribile era la loro autorità; essi potevano decidere non solo un prezioso aiuto al contadino affaticato, ma anche, forse, della vita o della morte di un figlio, di un fratello di un parente”.
Le domande presentate erano sempre molto più numerose delle licenze che potevano essere concesse, perciò una scelta obiettiva delle stesse era molto difficile, per non dire impossibile.
Nel 1917 alla commissione della Provincia di Roma furono presentate 20.000 domande. Ne furono scelte soltanto 2.000, e la commissione fu perseguitata da lettere, telegrammi e interrogazioni per conto delle 18.000 famiglie deluse.          
   
Numerosissime agitazioni contro la guerra ebbero luogo in Italia nel 1916 e più ancora nel 1917. La più grave si verificò a Torino, dove il 22 agosto 1917 un mancato rifornimento di farina fu causa di una dimostrazione per il pane, la quale degenerò in vero e proprio moto antimilitarista, che durò circa una settimana, provocando trentacinque morti fra i rivoltosi, di cui tre donne, e circa duecento feriti, mentre tra la forza pubblica e i reparti militari, che avevano partecipato alla repressione con mitragliatrici e autoblindo, i morti furono tre . Furono arrestate circa mille persone che, processate per direttissima, furono condannate alla reclusione.

Ma già nel gennaio-marzo 1916, a Firenze, le donne del contado cercarono d’inscenare manifestazioni pacifiste. Nell'aprile successivo, a Mantova, altri gruppi di donne dimostrarono contro la guerra. Verso la fine del 1916 le agitazioni si moltiplicarono in misura impressionante. Quasi ogni lunedì – giorno in cui venivano distribuiti i sussidi alle famiglie dei mobilitati – venivano segnalate dimostrazioni spontanee di donne che reclamavano l’aumento dei sussidi e soprattutto il ritorno dei congiunti. La direzione generale di Pubblica Sicurezza calcolò che dal 1° dicembre 1916 al 15 aprile 1917 ebbero luogo 500 manifestazioni, alle quali parteciparono decine e decine di migliaia di donne.

Nel corso del 1917 gli interventisti più accesi reclamavano insistentemente provvedimenti di carattere eccezionale contro tutti i neutralisti in generale e contro i socialisti in particolare. Perciò diedero vita a comitati e leghe di resistenza interna per mobilitare i loro seguaci e dar la caccia ai neutralisti. Un settimanale, “Il fronte interno”, fu l’organo di questi comitati e diventò presto famoso per il suo tono esasperato e fazioso.

Il 15 maggio 1917 il comitato milanese di resistenza interna avvertì che se il governo avesse continuato a tollerare il “disfattismo”, il popolo si sarebbe fatta giustizia da sé. E il successivo 24 maggio tutte le rappresentanze dei gruppi interventisti, riunite al Campidoglio per celebrare il 2° anniversario dell’entrata in guerra, rivolsero al governo un perentorio invito a non favorire i nemici della vittoria.

Intanto il ministro Leonida Bissolati, cercando ad essere nello stesso tempo il rappresentante dell’interventismo in seno a governo e del governo presso il Comando supremo, agiva perché Cadorna fosse solidale con gli interventisti e contribuiva ad esasperare l’avversione del generalissimo verso il governo e il parlamento.

Nacque così tra interventisti e Comando supremo un vero e proprio “idillio”, del quale numerosissime furono le conferme fino alla disfatta di  Caporetto.
Pietro Congedo