sabato 26 marzo 2016

Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra: Contrasti e crisi del primo semestre 1916

Gen. Luigi Cadorna
Nel 1916 fra politici e militari divenne sempre più aspra la contesa su “chi” dovesse guidare la guerra che, invece, continuò a procedere quasi per suo conto, perversa e indomabile, ribelle ad ogni regola che le si sarebbe voluta imporre.
 A tal proposito il generale Antonino Di Giorgio nel 1919 ammise: “La verità  è che nessuno governò l’Italia in guerra”.
In passato i politici si erano quasi sempre disinteressati dell’esercito, mentre i militari avevano impedito al Parlamento di ingerirsi nei loro affari. Tuttavia non erano mancate del tutto le interferenze fra i due mondi. Infatti i ministri della Guerra e della Marina dibattevano i problemi dei loro dicasteri  in seno al Consiglio dei ministri e, come tutti i membri dell’esecutivo, erano soggetti al controllo del Parlamento; il Governo utilizzava di continuo le truppe per garantire l’ordine pubblico. Nonostante questo, i due mondi continuavano a restare estranei l’uno all’altro, animati da reciproca diffidenza. Per esempio: mentre il generale Emilio De Bono, descrivendo la vita degli ufficiali nell’anteguerra,  affermava che nessuno di essi si occupava di politica, l’on. F. Marazzi testimoniava che prima del conflitto era stato “quasi un vanto civico far pompa d’ignoranza di ogni nozione militare”.

Le operazioni militari, che nel 1915 si erano concluse con un bilancio del tutto insoddisfacente, e le notizie diffuse nel Paese dai militari feriti o in licenza destavano allarmi e apprensioni non solo ai comuni cittadini, ma anche ai  parlamentari.                  
Fra i tanti l’on. Giampietro, che era ufficiale dell’esercito, denunciava un vero e proprio spreco di denaro pubblico causato da un piano strategico e da un’azione sbagliati, mentre il giornalista Gaetano Salvemini, tornato dal fronte, affermava  che il tentare e ritentare sempre la stessa impresa, senza che questa riuscisse, aveva depresso lo spirito dei soldati.
Il 26 gennaio 1916 in una riunione del Governo Salandra il gen. Vittorio Italico Zupelli, responsabile del dicastero della guerra, nell’intento di dare fiducia a quei suoi colleghi che dicevano di non capire nulla di tattica e di strategia, presentò un memoriale nel quale affermava fra l’altro che il gen. Luigi Cadorna avrebbe dovuto:

  • evitare di disperdere tutta le forze disponibili sull’intero fronte e concentrarle, invece, sul Carso dove il nemico era più vulnerabile; 
  • non sospendere le ostilità in inverno, poiché proprio in tale stagione sarebbe stato possibile impadronirsi del Carso e precludere al nemico le vie per Trieste.

Secondo Zupelli  bisognava, perciò, riunire immediatamente su un breve fronte di 12 km almeno 500 delle 770 bocche di fuoco possedute ed riprendere le operazioni offensive  entro il mese di febbraio, cioè nel giro di pochi giorni.
Dopo Zupelli, prese la parola il ministro Sidney Sonnino, il quale dichiarò che le sorti della guerra le doveva decidere il  “Consiglio di difesa”, ma  che, essendo questo un organismo operante solo in periodo di pace, si era nell’impossibilità di convocarlo.
Pertanto il presidente  Salandra ritenne opportuno scrivere il 30 gennaio una lettera al Re per informarlo del disagio dell’intero Governo per quanto stava accadendo.
Il Consiglio dei ministri tornò a d occuparsi della questione il 6 febbraio, decidendo di inviare Zupelli al fronte, perché esponesse il proprio piano a Cadorna.
Il ministro della guerra partì e tornò soddisfatto, perché il Comandante supremo aveva  accolto i concetti base del piano formulato nel suddetto memoriale in modo diverso da come ci si potesse aspettare.
Però col passar del tempo i concetti espressi in detto memoriale, peraltro già non ritenuti validi dal Re, cominciarono a sembrare fantastici ed assurdi agli stessi ministri che in un primo momento li avevano approvati.
Intanto il Comandante supremo, che ben sapeva di avere molti avversari, messo sul chi vive dal memoriale Zupelli e dalle voci in giro di una sua imminente sostituzione, decise di passare al contrattacco avverso i “nemici che erano a Roma”. Infatti chiese il sostegno del giornalista Ugo Ojetti, il quale, oltre a farlo subito  intervistare in un posto avanzato da un giornalista del quotidiano «Idea Nazionale», gli assicurò sulla stampa italiana di febbraio tutta una serie di articoli laudativi del suo operato. Perciò  Cadorna il 29 febbraio ringraziò Ojetti, dimostrandosi contento che il Comando supremo fosse stato considerato superiore alle critiche degli ignoranti e degli sfaccendati. Chiara allusione questa agli uomini politici.
Però lo stesso Cadorna, dopo l’esaltante campagna giornalistica in suo favore, poté finalmente dare sfogo al proprio risentimento verso Zupelli, imponendo a Salandra la destituzione del ministro della guerra: o via lui, scrisse, o via io.
Il presidente del Consiglio rispose di non poter subire imposizioni, precisando altresì che secondo lo Statuto del Regno d’Italia solo al sovrano spettava la nomina e la revoca dei ministri.
Due giorni dopo Cadorna replicò al Capo del governo con la presentazione delle proprie  dimissioni da Comandante supremo.
Salandra reagì rimettendo l’intera questione nelle mani del Re, cioè dichiarando fra l’altro: “Con perfetta tranquillità di spirito ritengo però che in questo momento sia nell’intesse del Paese minor danno cambiare il ministro che non cambiare il capo di stato maggiore, perciò rassegno le mie dimissioni e resto in attesa degli ordini di Vostra Maestà”.
Il Re ribadì il principio che la richiesta di allontanare Zupelli non era corretta  dal punto di vista costituzionale. Cadorna rinunciò allora sia alla sua richiesta sia al suo proposito di dimettersi. Anche Salandra non parlò più di lasciare il Governo.
Alla fine, dunque, se nella forma l’ebbe vinta il presidente del Consiglio, nella sostanza fu il comandate supremo a prevalere, anche perché il 9 marzo Zupelli, adducendo come motivo il clamore suscitato da una campagna giornalistica in corso, si dimise. A questo proposito Salandra scrisse poi al Re di ritenere che il ministro della guerra non a torto vedeva nella la campagna giornalistica contro di lui l’ispirazione dello Stato Maggiore.
Fu quindi nominato ministro della guerra  il generale Paolo Morrone, in base a una scelta fatta non da Salandra, ma dallo stesso Cadorna. Circostanza questa peraltro confermata dal ministro delle Poste Vincenzo Riccio, il quale scrisse che il Morrone era in seno al Consiglio dei ministri la longa manus del gen. Cadorna, i cui ordini eseguiva “con poco ingegno e molta scrupolosità”. Il Consiglio dei ministri si adattò al nuovo modus vivendi e per un certo tempo non pose più in discussione l’operato del Comando supremo
Tutto questo è la dimostrazione inequivocabile che nel 1916 in Italia il Comando supremo dell’Esercito contava molto più del Governo dello Stato.

Il 15 maggio, improvvisamente, le truppe austro-ungariche, iniziarono nel Trentino, fra i fiumi Adige e Brenta la strafexpedition (= spedizione punitiva) contro l’Italia che aveva tradito la Triplice Alleanza, di cui faceva parte insieme a Germania e Austria. Sin dagli ultimi giorni di marzo erano stati avvertiti dai reparti italiani i sintomi di una possibile offensiva austriaca, ma non era stata messa in atto nessuna misura preventiva in quanto Cadorna diceva di non creder che i nemici volessero impegnarsi nel Trentino. E il 15 maggio, quando gli austriaci  avevano già sfondato le linee italiane, i ministri, che ancora non lo sapevano, dopo una riunione del Consiglio, erano rimasti a discorrere della guerra, in quanto erano preoccupati che dal punto di vista militare l’Italia si stesse facendo molto poco.
Ma quando giunsero le prime gravissime notizie dal fronte lo sgomento fu generale.
La strafexpedition aveva portato la guerra in casa: gli austriaci avanzavano in territorio italiano e non si sapeva ancora dove sarebbe stato possibile arrestarli. Pertanto il 24 maggio, 1° anniversario della dichiarazione di guerra, ci fu un’agitatissima riunione del Consiglio dei ministri, durante la quale  Barzilai e Martini dichiararono che la loro fiducia in Cadorna era scossa, mentre Sonnino disse addirittura di essere seriamente preoccupato che le sorti d’Italia fossero affidate ad una sola persona, la quale neppure dava conto del suo operato e, perciò, propose  la convocazione di un convegno tra Cadorna, i Comandanti di armate, il Capo del governo e cinque ministri.
Tale proposta venne approvata dal Consiglio, ma il Comandante supremo il 25 maggio telegraficamente comunicò il proprio rifiuto di aderirvi, adducendo una articolata motivazione la quale si concludeva con l’affermazione che egli, fino a quando avesse avuto l’onore di godere della fiducia del Re e del Governo, si sarebbe assunte tutte le responsabilità, altrimenti avrebbe pregato di essere sostituito con la massima urgenza. Comunque si dichiarava disposto a fornire tutte le informazioni desiderate.
A questo punto i ministri, non sapendo cosa fare, inviarono in zona di guerra per raccogliere informazioni il solo gen. Morrone. Questi, dopo quattro giorni, tornando dal fronte portò al Consiglio il rapporto di Cadorna, costituito di  un sola paginetta!
In questa, però, era fra l’altro scritto che, a causa della minacciata invasione austriaca dalla parte della Val Lagarina, poteva diventare necessaria la nostra ritirata dall’Isonzo al Piave.
La lettura di detto rapporto provocò una vera insurrezione dei ministri presenti.      
E, mentre V. E. Orlando dichiarava che una ritirata fino al Piave avrebbe significato la capitolazione e la guerra perduta, Sonnino affermava che Cadorna aveva tradito il Paese e bisognava porre il dilemma: “O lui, o noi”. Anche Martini, Barzilai e Riccio sostenevano che fosse necessaria la sostituzione del Capo di stato maggiore, che fu quindi proposta al Re. Questi non sollevò obiezioni, ma dichiarò esplicitamente che l’iniziativa doveva essere assunta dal Governo. Ma il presidente Salandra, cercando di non affrontare subito il problema, convinse il Consiglio a deliberare di lasciare Cadorna al suo posto, tenendo pronto un successore. Quindi tutto restò come prima e non si riuscì neppure a convincere il Comandante supremo ad informare preventivamente il governo di una eventuale ritirata dall’Isonzo al Piave.              
Questa impotenza, dimostrata nella direzione delle vicende militari, contribuì alle dimissioni del presidente Salandra (18 giugno 1916), ormai inevitabili in quanto al suo scarso impegno nella condotta della guerra (peraltro dichiarata contro la sola Austria) erano addebitati i gravi insuccessi sui campi di battaglia.
Dopo la caduta di Salandra la classe politica italiana non fu in grado di esprimere una reale alternativa di governo. Venne, infatti, costituito un governo di unità nazionale, presieduto da un uomo politico di scarso rilievo e di ancor più scarsa autorità, qual era l’anziano patriota Paolo Boselli. Questi secondo il senatore L. Albertini era “uomo che nel discutere scivolava via senza che si riuscisse ad afferrarne il pensiero, perché non aveva un pensiero ben definito e preferiva trarre norma nelle sue decisioni dall’ambiente e dalle circostanze”.
Proprio traendo norma dall’ambiente e dalle circostanze e vedendo che l’offensiva nemica sull’Altopiano di Asiago era stata fermata, il neo Capo del Governo ritenne opportuno inviare un telegrafico e fidente saluto “all’insigne capitano” che guidava “i soldati d’Italia alla vittoria”.
Ma di queste parole furono scontenti tanto Cadorna e i cadorniani quanto gli anticadorniani. I primi perché giudicavano le stesse troppo caute e, quindi, non   rappresentanti un vero encomio. I secondi perché rimproveravano al nuovo Governo di avere in tal modo impegnato, senza un preventivo esame, la propria libertà di giudizio in ordine al problema di un eventuale esonero del Comandante supremo. Problema questo che si era seriamente posto il Ministero precedente.
Nei primi giorni di attività governativa Boselli chiese al Capo di stato maggiore  una relazione sulle ultime operazioni militari da leggersi in parlamento. La ebbe, ma non se ne valse. Cadorna si offese, tanto più perché venne a sapere che il presidente del Consiglio abitualmente parlava male di lui.
La contesa tra militari e politici sulla conduzione della guerra, che tendeva a inasprirsi all’inizio del 1916, non era stata, quindi, neppure mitigata, intorno alla metà di giugno in virtù dell’azione generosa anche se non sempre appropriata di alcuni uomini di governo, ed in particolare del ministro  Zupelli.
Ma alla fine del 1° semestre, cioè dopo l’uscita di scena del Governo Salandra (17 giugno), mentre la guida dell’Esercito era ben salda nelle mani di Luigi Cadorna le condizioni politiche del Paese subirono un imprevisto e grave peggioramento. Infatti il Governo Boselli “Era il ministero della debolezza che simulava la forza”,  come disse F. S. Nitti. Era un Governo di Unità Nazionale, cioè di tutti i partiti e rischiava l’inefficienza e la paralisi nell’azione. Inoltre era guidato da un politico compiacente e benevolo con tutti e ormai al termine della sua carriera politica.                                                                                                                                                    
Il Ministero Salandra aveva avuto dodici ministri. Invece quello di Boselli ne contava venti, di cui solo tre [ V. E. Orlando (interni), P. Morrone (guerra), S. Sonnino (esteri)] con l’esperienza governativa che mancava agli altri diciassette. Infine questi ultimi, essendo diversi fra loro per formazione ed idee, difficilmente avrebbero potuto assicurare quell’azione decisa ed efficiente necessaria al Paese in guerra.

Pietro Congedo

mercoledì 23 marzo 2016

Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra: L’adattamento del soldato alla guerra



Le truppe si adattarono presto alla nuova guerra, tanto diversa da quelle del passato.  In particolare anche l’adattamento consistente nell'accettazione di un conflitto di lunga durata che non era certo facile, fu reso possibile dal fatto che i soldati continuarono a credere nella brevità della guerra. Infatti alla fine del 1915 previdero la pace per la primavera del 1916, in primavera la attesero per l’autunno, in autunno per la primavera  successiva, e così di seguito. Finché, nell'autunno del 1918 furono in molti ad ingannarsi, pensando che la pace sarebbe giunta nella primavera del 1919. Per esempio, il giornalista Ugo Ojetti,  addetto presso il  Comando supremo alla tutela degli oggetti d’arte e dei monumenti delle zone di guerra, il 25 ottobre 1918 scrisse alla propria moglie: “Comincio a credere che la guerra durerà fino a primavera”.

I soldati, che nelle prime settimane del conflitto non sapevano scavare nel terreno luoghi in cui ripararsi dal fuoco nemico, impararono presto a costruire complessi sistemi di camminamenti e trincee, nei quali si poteva vivere sia pure nel fango e nella sporcizia, sia sotto tiro dei fucili che sotto il bombardamento dei cannoni austriaci.

Inoltre si adattarono a trascorrere settimane o addirittura mesi a breve distanza dal nemico, in quanto riuscivano a vivere la vita di trincea come se si  trattasse di un’esistenza “normale”, priva di eccessive tensioni od emozioni.

D'altronde abitualmente il vivere in trincea, mentre di notte era movimentato, di giorno era tranquillo. Infatti di notte i soldati o uscivano di pattuglia o dovevano restare all’erta per evitare sorprese. Invece  di giorno: non c’era sveglia, e chi voleva poteva continuare a dormire, poiché c’era tanto poco da fare che la distribuzione dei viveri costituiva quasi sempre l’unico avvenimento della giornata.

Tuttavia il trascorrere nell'ozio intere giornate finiva col logorare psicologicamente gli stessi soldati, procurando loro una “forte depressione dei poteri volitivi, estrinsecantesi con incuria nella persona, con l’apatia più spiccata anche per quanto può concorrere al proprio benessere, e con un torpore intellettuale” ( V. Relazione del gen. Luigi Capello del gennaio  1916).  
   
I combattenti istruiti e colti soffrivano più degli altri a causa di questa decadenza intellettuale. A tal proposito in una lettera del gennaio 1916 Giacomo Morpurgo scriveva: “Davvero che i nostri cervelli si impigriscono nell'esercizio unico e limitato del compito giornaliero, sempre uguale, e sempre terra terra».

Neppure le azioni difensive o offensive scuotevano il soldato dall'apatia e dal fatalismo nei quali era immerso. Anzi, secondo lo psicologo Agostino Gemelli, “L’insensibilità affettiva, l’apatia sentimentale crescevano durante le azioni. …”. Apatia e fatalismo si manifestavano soprattutto durante i bombardamenti austriaci, quando non restava che attendere, nella più assoluta e passiva immobilità, il cessare del fuoco nemico.

Lo spirito delle truppe era già definitivamente mutato alla fine 1915. Infatti era ormai scomparso lo spirito garibaldino e la guerra sembrava ai combattenti non troppo diversa da un lavoro da portare a termine, o da una calamità naturale che necessariamente bisognava accettare.
Distacco, spersonalizzazione e fatalismo caratterizzavano tutti i comportamenti del veterano, il quale ormai sapeva adattarsi alle circostanze. Se egli non si offriva più volontario ad azioni pericolose, era perché non voleva forzare il destino o perché aveva sperimentato l’inutilità di tanti gesti eroici compiuti perfino durante azioni insignificanti.

L’ideale di patria esercitava scarsa o addirittura nessuna influenza sul comportamento della grande massa dei combattenti e specialmente dei numerosissimi fanti-contadini. A tal proposito scriveva padre A. Gemelli: “Parlare di patria a … questi uomini semplici non ha alcun significato. Si tratta di uomini umili, che non hanno certo coscienza nazionale […] Il soldato pensa a sé, alla sua famiglia, alla sua casa; non va oltre la linea dei suoi interessi […] E’ un uomo.”

Di conseguenza gli accenti epici molto di rado comparivano  nelle canzoni, spontaneamente sorte e rapidamente diffusesi fra i combattenti. In esse  quasi mai si nominava l’Italia, invece quasi sempre si esprimevano affetti familiari ed amorosi: in altri termini i sentimenti dell’uomo prevalevano su quelli del cittadino.
Fra i soldati erano, però, molto diffuse strofette e canzoni “proibite”, che nominavano la patria, il re o Cadorna, ma per schernirli o per ingiuriarli.
 
Gli obiettivi territoriali della guerra, riassunti nel binomio “Trento e Trieste”, erano forse gli unici che tutti i soldati potevano comprendere facilmente. Tuttavia gli stessi non potevano avere un significato patriottico per i contadini, che rappresentavano circa metà dell’esercito e quasi tutti appartenevano alla fanteria, la più sacrificata di tutte le armi, destinata da sola a subire il 95% delle perdite e, perciò, alla fine del conflitto, gli orfani di contadini erano 218.000 (63%), su un totale di 345mila orfani di guerra. La classe più contraria alla guerra offrì, dunque, alla patria il maggior contributo di sangue.
I fanti-contadini interpretavano la conquista del Trentino e della Venezia Giulia alla luce delle loro esperienze dirette, cioè come presa di possesso di territori da arare e da seminare. A tal proposito Arrigo Serpieri, economista agrario, ha scritto: “I contadini della grassa Romagna strabiliavano nel vedere la magra rossiccia fanghiglia carsica e domandavano agli ufficiali se valeva la pena di scatenare quell'ira di Dio per conquistare quella terra da pipe”.

Dopo il 1915 gli ufficiali si trovarono in una condizione di spirito molto somigliante a quella dei loro subordinati. Sotto molti punti di vista, anzi, l’adattamento degli ufficiali risultò più difficile di quello dei soldati. Infatti gli ufficiali potevano distinguersi dai semplici soldati per una maggiore sensibilità ai valori patriottici, per l’istruzione e l’educazione ricevute, per le maggiori responsabilità dovute alla funzione di comando, per i privilegi conferiti dal grado. Ma nelle prime linee la guerra parificava tutti i combattenti, senza fare distinzioni tra comandanti e comandati. Infatti in trincea l’ufficiale non correva rischi minori di quelli dei suoi soldati, e durante le azioni ne affrontava forse di più grandi, poiché usciva sempre con gli altri allo scoperto, spesso esponendosi davanti a tutti per dare esempio di coraggio.

La maggiore sensibilità ai valori patriottici procurava agli ufficiali una maggiore pena nel vedere deluse le attese della vigilia. Perciò nello svolgersi della dura esperienza quotidiana anche il loro sentimento patriottico si affievoliva.  
Le maggiori responsabilità dovute alla funzione di comando talvolta portavano l’ufficiale ad avere invidia dei propri subordinati. Sentimento questo che Paolo Marconi, giovane ufficiale alpino, espresse in una  sua lettera del febbraio 1916, scrivendo fra l’altro: “… I soldati…se ne stanno lunghe ore tranquilli a contemplare il cielo e la terra, maestosamente. … Noi no! Noi dobbiamo vigilare, tutto osservare, a tutto badare. Spesso manifestare severità e rigidezza che in realtà non abbiamo. E di fronte all'incubo delle cose esterne … si fanno aride le fonti della vita interiore”.

Nella prolungata vita trincea proprio queste cogenti responsabilità  spesso  determinavano in alcuni seri disturbi di natura psicologica. Il direttore di sanità del VI Corpo d’armata, Gerundo, essendo stato interpellato a tal proposito dal gen. Luigi Capello, il 7 gennaio 1916 scriveva: “Da qualche tempo si notano frequenti casi di esaurimento nervoso specialmente negli ufficiali, che si presentano la maggior parte sotto una forma depressiva ed in alcuni casi, fortunatamente rari, sotto forma eccitatoria (sic). Mentre i primi si presentano in genere apatici, indolenti, ipobulici, attoniti, gli altri si presentano con fenomeni alterni di eccitabilità e di depressione. […]”.

Nel corso del conflitto la questione che più di ogni altra agitò l’animo dei combattenti fu quella degli “imboscati”, cioè di tutti coloro che si sottraevano al servizio di guerra e restavano lontano dal fronte. Tuttavia, essendo tale questione molto sentita, il termine “imboscato” finì con l’assumere svariati significati. Per esempio: chi stava in una trincea particolarmente esposta considerava imboscati coloro che occupavano una posizione meno pericolosa; coloro che combattevano sul fronte dell’Isonzo giudicavano imboscati i fanti delle armate schierate tra lo Stelvio e la Carnia, che chiamavano “armate della salute”; per i fanti erano imboscati gli artiglieri; e per l’intero esercito erano imboscati tutti coloro che non si trovavano in zona di guerra.
Comunque il problema dell’imboscamento veniva avvertito dai soldati in forma sempre più acuta, perché continuamente ne venivano alla luce casi clamorosi come i seguenti:

  • lontano dal fronte prestarono sempre servizio i tre figli del presidente del Consiglio Antonio Salandra, il quale a suo tempo aveva solennemente dichiarato che gli stessi sarebbero andati in prima linea;
  • il sottotenente Edoardo Agnelli, proprietario della FIAT, prestava servizio presso il Comando supremo in qualità di vice-direttore del parco automobilistico, alle dipendenze di un capitano che nella vita civile dirigeva il garage FIAT di Milano.      

A partire dall'ottobre 1915 il Governo istituì un’imposta sulle esenzioni dal servizio militare dell’importo annuo di lire sei (subito battezzata dai soldati “tassa sugli imboscati”), alla quale erano assoggettati sia i riformati che gli esonerati. Questi ultimi costituivano una categoria molto numerosa, poiché vi facevano parte gli addetti a vari uffici e servizi nonché gli operai di industrie in qualsiasi modo impegnate in produzioni utili alla guerra. Inoltre gli operai richiamati raramente erano assegnati alla fanteria poiché, se conoscevano anche superficialmente un motore o sapevano maneggiare un attrezzo, venivano avviati ad altri corpi speciali. Questo convinse il fante-contadino che dire operaio equivaleva dire imboscato, cioè nascosto in qualche corpo speciale o semplicemente rimasto in città a lavorare guadagnando bene.

I fanti-contadini, che non avevano certo voluto la guerra, vivevano,  dunque, nella consapevolezza che soltanto per loro non esistevano alternative alla lotta in prima linea, come peraltro riconobbero alcuni autorevoli uomini politici: “La guerra la fanno i contadini!” gridò alla Camera l’on. Soderini. “La pagano col loro sangue in proporzione del 75 per cento”, confermò l’on. G. Ferri.

Francesco Congedo

giovedì 3 marzo 2016

Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra: L'impiego degli aerei nel primo conflitto modiale

Milano, 14 febbraio 1916: gli effetti del primo bombardamento aereo austriaco
Gli italiani in Libia nel 1911, durante la guerra italo-turca, utilizzarono per la prima volta l’aereo come mezzo sia di ricognizione che di offesa. In particolare il 23 ottobre il capitano Carlo Maria Piazza eseguì la prima ricognizione, mentre il successivo 1° novembre  il sottotenente Giulio Gavotti effettuò in maniera singolare il primo bombardamento aereo della storia: volando a bassa quota su un accampamento turco ad Ain Zara lanciò tre bombe a mano.
L’impiego operativo dell’aereo era stato per la prima volta teorizzato in uno scritto  del 1909 dall’ufficiale dell’esercito italiano Giulio Douhet, il quale era nato nel 1869 da genitori di origini savoiarde, che avevano optato per la cittadinanza del Regno di Sardegna quando Nizza e Savoia vennero cedute alla Francia.

Proprio a Giulio Douhet il 13 novembre 1913 venne conferito dal Governo il comando del Battaglione Aviatori del Servizio Aeronautico Italiano, istituito ne 1912.
Allo scoppio della prima guerra mondiale l’aereo veniva utilizzato come mezzo di ricognizione, considerando il suo impiego quasi un surrogato delle consimili operazioni tradizionali della cavalleria, dalla quale spesso provenivano gli equipaggi dei primi velivoli.
Poiché il riconoscimento del profilo del terreno, della distribuzione e dei movimenti delle truppe e della disposizione delle trincee nemiche venivano notevolmente facilitati dalla perlustrazione aerea, l’aviazione militare conobbe un poderoso sviluppo in termini numerici e di miglioramenti tecnologici.

Tra il 1913 ed il 1918 almeno 136 tipi di aerei militari furono progettati, costruiti ed inviati nei vari teatri operativi. Ma nello stesso tempo fu, purtroppo, constatato quanto il mestiere di pilota fosse pericoloso: circa 52mila aerei, cioè quasi il 77% di quelli impiegati, andarono perduti  con i relativi equipaggi.

Il 24 maggio 1915, allo scoppio delle ostilità contro l’Austria, l’Italia aveva 150 aerei, 91 piloti, 20 osservatori e 20 allievi piloti.
Poiché l’industria aeronautica italiana era poco sviluppata, fu presto necessario acquistare numerosi aerei all’estero. Era, quindi, opportuno promuovere la nascita di un apparato industriale che potesse garantire una consistente produzione di aeromobili su scala locale.
Perciò il suddetto Douhet, che invocava la costruzione di aerei  da bombardamento per ottenere il controllo dell’aria, entrò in relazione con l’industriale Gianni Caproni che lui stesso autorizzò a costruire per l’Aviazione Italiana i bombardieri trimotori, detti appunto “Caproni”.
Egli non aveva però il potere di concedere detta autorizzazione, perciò fu rimosso dal  comando del Battaglione Aviatori ed inviato a prestare servizio nell’Esercito.
Successivamente, quando un suo scritto molto critico in ordine alla condotta della guerra, inviato segretamente all’esponente socialista Leonida Bissolati, venne intercettato dalle Autorità governative, egli fu deferito alla corte marziale per diffusione di notizie riservate. Fu, quindi, condannato alla pena di un anno di reclusione, espiando la quale ebbe la possibilità di consolidare le proprie idee, che poi espose nel più famoso dei suoi numerosi libri, intitolato “Il controllo dell’aria”.
Comunque Giulio Douhet, a parte gli incresciosi guai a cui era incorso, assicurò alla  Regia Aeronautica numerosi ottimi trimotori “Caproni” che si rivelarono molto utili  nel bombardamento tattico e nelle incursioni contro la base navale austriaca di Pola.
 
Sul fronte italo-austriaco, a causa dell’impossibilità degli aerei del tempo di volare a quote elevate, l’aviazione militare poté operare in zone pianeggianti o di bassa montagna, quindi specialmente sul fronte dell’Isonzo da Tolmino fino al mare, dall’inizio del conflitto fino alla ritirata di Caporetto, e nel settore Monte Grappa-Piave nell’ultimo anno di guerra.
Nei primi sei mesi di ostilità ci si limitò alle ricognizioni disarmate. Eccezione fu il bombardamento austriaco su Venezia del 24 ottobre 1915, che causò gravi danni ai beni culturali della città.
Nel luglio del 1915 l’aviazione austriaca fu dotata del caccia “Fokker E. I”, il primo velivolo dotato di “sincronizzatore”, un meccanismo che consentiva al pilota di sparare attraverso l’elica senza colpirne le pale. Innovazione questa che assicurò a questi aerei un importante vantaggio rispetto a quelli degli avversari. Ciò fu purtroppo amaramente constatato anche dagli italiani, poiché nel febbraio 1916 una formazione di dieci nostri  bombardieri “Caproni” venne efficacemente contrastata proprio da caccia “Fokker”, e nello scontro trovò la morte il colonnello Alfredo Barbieri, comandante della divisione aerea italiana.

Dopo la morte di Barbieri le missioni dei bombardieri “Caproni” vennero effettuate solo poco oltre la linea del fronte. Ma nell’aprile 1916 l’attività dell’aviazione italiana fu in netta ripresa in virtù dell’acquisizione di caccia francesi “Nieuport” e delle prime vittorie di Francesco Baracca.
L’aviazione austro-ungarica, pur non disponendo di bombardieri con più motori, come il “Caproni”, effettuando contro l’Italia missioni ben pianificate, conseguì fra gli altri i seguenti  importanti successi:

  • lunedì 14 febbraio 1916, alle ore 9, furono bombardati a Milano i quartieri Porta Romana e Porta Volta, mentre fino ad allora i bombardamenti erano stati subiti da alcune città della costa adriatica, da Verona e da località della pianura padana (*) (**);
  • nella notte tra il 17 e il 18 aprile 1916 Treviso fu bombardata da idrovolanti austriaci due volte, cioè alle 23:00 del 17 e alle 2:30 del 18;
  •  il 9 agosto 1916 fu bombardata Venezia ed affondato  un sommergibile inglese che era nel porto.

Le vittime italiane dei bombardamenti austriaci superarono le 400 unità, di cui 93 morte a Padova quando le bombe colpirono distruggendolo un rifugio antiaereo.

La stessa Treviso nel corso della guerra fu bombardata addirittura altre 27 volte, con lo sganciamento totale di circa 1500  bombe, perciò fu in gran parte abbandonata dagli abitanti, poiché solo 300 edifici erano rimasti indenni.

L’impiego di aerei in grandi formazioni anche di cinquanta velivoli fu la dimostrazione pratica della piena validità delle teorie di Giulio Douhet, che per primo aveva intuito che il dominio bellico dell’aria sarebbe stato importante quanto quello delle rotte marittime.
Il poeta-pilota Gabriele D’Annunzio, che gettò poi le basi dell’arditismo aviatorio, effettuando una serie di rischiose missioni di ricognizioni sull’Adriatico e i famosi raid sull’Austria allo scopo di lanciare volantini, stimava molto Douhet e si prodigò  per la sua riabilitazione.

Tuttavia, dopo la ritirata di Caporetto e l’uscita di scena del generale Luigi Cadorna, Giulio Douhet, quando aveva già scontata la pena, riuscì ad ottenere la revisione del processo, che si concluse con l’annullamento della condanna subita e il reintegro come ufficiale del R. Esercito. Nel 1921 ricevette la  promozione a maggiore generale e l’incarico di capo dell’Aviazione Italiana. Presto, però si dimise da quest’ultima carica, per dedicarsi interamente allo studio.
Douhet non conseguì mai il brevetto di pilota e morì d’infarto cardiaco nel 1930.

Allo scoppio della Grande Guerra la Regia Marina italiana aveva già avviato da alcuni anni la formazione di una propria aviazione. Partendo da esperienze legate soprattutto ai palloni aerostatici in funzione di ricognizione ed osservazione, si giunse presto alla costituzione di una scuola di piloti d’aereo a Venezia (1913). I piloti usciti da questa scuola fondarono la squadriglia “San Marco” che venne equipaggiata con idrovolanti di vario tipo.    
L’Aviazione italiana terminò il conflitto con 6.488 aerei e 18.840 motori prodotti nel solo 1918. Questo trend positivo continuò anche nel dopoguerra.

Pietro Congedo

(*)
Tratto dalla pagina web


...
Milano era lontana dalle linee nemiche, ma contribuì in maniera non indifferente col proprio apporto di uomini e di forza lavoro (ricordiamo che il grosso delle industrie pesanti si trovava in un triangolo di poche centinaia di chilometri tra Milano, Torino e Genova). Ma cosa è rimasto in città a ricordo di quella “Grande Guerra”? Provate a fare un giro con noi, visitando:
  1. Monumento ai ferrovieri caduti alla Stazione Centrale: al lato del binario n. 21, una installazione in marmo eseguita da Guglielmo Beretta, e posta a muro nel 1921 ricorda gli impiegati delle FF. SS, caduti durante lo svolgimento delle proprie mansioni in zona di guerra.
  2. Via Ragazzi del ’99: abbiamo citato l’esempio dei ragazzi del ’99 che la nostra città ha giustamente voluto ricordare con una via, laddove ancora è sopravvissuto un piccolo lembo di vecchia Milano, tra la Piazza S. Fedele e la Via Hoepli, sopravvissuto agli sventramenti imposti dal regime fascista alla nostra città.
  3. Tempio della Vittoria o sacrario dei caduti nella Prima Guerra Mondiale presso S. Ambrogio, lato L.go Gemelli: ideato per essere collocato nella fascista Piazza Fiume (poi divenuta della Repubblica). Finisce per essere realizzato sul luogo dove sono sepolti i primi martiri cristiani, presso S. Ambrogio... 
  4. Monumento ai caduti di Porta Romana Via Tiraboschi/ Via Papi: in realtà fu inaugurato come Monumento ai caduti dell’incursione austriaca. Infatti ricorda il primo bombardamento aereo sulla città, durante la I Guerra Mondiale: il 14 febbraio 1916, alla fine della giornata, si contano 13 morti e 40 feriti proprio tra Via Tiraboschi e Piazza Buozzi, in prossimità dello stazione di Porta Romana, importante scalo ferroviario industriale. In ricordo di questo episodio verrà innalzato il 24 giugno 1923 il monumento “Ai caduti di Porta Romana” (realizzato da Enrico Saroldi). L’opera raffigura un soldato romano e un milite del Carroccio (due figure storiche che avevano lottato contro i Tedeschi) mentre sorreggono una vittima. L’uomo che si accascia dovrebbe ricordare l’eroe di guerra Giordano Ottolini.  A causa della postura dei tre protagonisti, i vecchi milanesi avevano ribattezzato il luogo “ai tri ciucc” (ai tre ubriachi). Il basamento riporta i nomi dei morti per l’incursione aerea del 14 febbraio 1916 e quelli dei 573 residenti del Rione di Porta Romana caduti in guerra.
(**)
Tratto dalla pagina WEB

Il monumento, inaugurato nel 1923, celebra l'eroe di guerra Giordano Ottolini e commemora le 18 vittime di un bombardamento aereo austriaco sul quartiere di Porta Romana durante la I Guerra Mondiale, alle 9 del mattino del 14 febbraio 1916. Dopo tale incursione la città si dotò di un apparecchio francese per la difesa dal cielo. Sembra che questo bombardamento sia stato un episodio isolato.
Il monumento è opera dello scultore Enrico Saroldi 
La gente del quartiere, interpretando in modo meno eroico la posa delle tre figure, chiama il monumento i trii ciucc (i tre ubriachi).

Testo della lapide:

GIORDANO OTTOLINI
MEDAGLIA D'ORO

ALLE VITTIME INERMI DEGLI AEROPLANI AUSTRIACI
CHE LA MATTINA DEL 14 FEBBRAIO 1916
LO INSANGUINARONO
IL RIONE DI PORTA ROMANA
ERGE QUESTA MEMORE ARA
E VI ACCENDE UN'UNICA FIAMMA D'AMORE
PER TUTTI I SUOI CADUTI IN GUERRA
DAL 1915 AL 1918
OGGI
CHE LA VITTORIA E' CONSACRATA
IN FACCIA AL SOLE D'ITALIA
24 GIUGNO 1923