giovedì 25 febbraio 2016

Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra: Le contraddittorie vicende dei primi sei mesi di conflitto



Quando il 24 maggio 1915 ebbero inizio le ostilità dell’Italia contro l’Austria [mentre quelle di Austria-Ungheria contro la Serbia erano già iniziate il 28 luglio 1914 e in breve avevano coinvolto sia Russia, Francia e Inghilterra (alleate della Serbia) che la Germania (alleata dell’Austria)] il tumultuoso contrasto tra neutralisti e interventisti si placò non tanto a causa dei silenzi imposti dalla censura sulla stampa o dalle nuove leggi di Pubblica Sicurezza, quanto proprio per il turbamento e il disorientamento provocati in tutti i partiti dalla realtà della guerra.

Tuttavia il Partito socialista (che era sempre stato contrario alla guerra) adottava ufficialmente la formula del «non aderire né sabotare», i cattolici  dichiaravano di volersi  comportare da cittadini obbedienti alle leggi, i giolittiani mantenevano un atteggiamento prudente e riservato (mentre il loro capo in un patriottico discorso dichiarava di essere devoto al Re e di voler sostenere il Governo), e il cinquantenne Cesare De Lollis, fondatore del gruppo neutralista “Italia Nostra”, partiva volontario per il fronte.

Ma nelle città e ancor più nelle campagne larghe masse scarsamente politicizzate, già estranee al dibattito sull’intervento, tenevano un atteggiamento indifferente -  se non addirittura ostile – nei riguardi del conflitto ormai in atto, il quale, non assomigliando per nulla alle tre brevi guerre d’indipendenza dell’800, richiedeva invece la partecipazione di tutti i cittadini, uomini e donne, sia per la costituzione di un esercito di enormi dimensioni, sia per l’indispensabile impegno produttivo dei campi e delle officine. In altri termini, mentre quella in atto era una guerra totale, guerra di masse e, come tale, molto dura e non certo breve, sul conto della stessa sia fra gli uomini della strada, sia fra quanti avevano responsabilità decisionali   dominava l’idea del tutto falsa che si trattasse di un conflitto non diverso di quello per la conquista della  Libia (1911-12).

Infatti il Governo non si preoccupava per niente dell’acquisto di ciò che in inverno sarebbe stato necessario all’Esercito: lo stato d’animo prevalente era quello di un’attesa fiduciosa. Non mancava certo l’angoscia nelle famiglie per i congiunti mandati al fronte, ma pochi erano veramente coscienti  dei rischi e della gravità dell’impresa a cui la Nazione si era accinta.

I soldati partivano senza sapere quale spaventosa esperienza fosse la guerra che già si combatteva da circa dieci mesi in Francia o nei Balcani. Essi si avviavano e partecipavano ai primi combattimenti con un morale nel complesso abbastanza alto. Questo si riscontrava, però, nei combattenti evoluti culturalmente, mentre la grande massa di fanti contadini e analfabeti non solo non sapeva, ma neppure si preoccupava di sapere per quali ragioni la guerra era combattuta. A tale proposito   Adolfo Omodeo scriverà: «…La guerra era sentita dal popolano come un fatto di natura simile alla vicenda delle stagioni: sarebbe passata, ma ci voleva pazienza; per il contadino, infatti, la guerra era un male, un castigo dei peccati: “Ma , una volta scatenatosi il flagello, lo accettava e lo sopportava virilmente, come il buon agricoltore regge alla tempesta e al solleone”».

Stati d’animo del tutto simili si ripetevano negli eserciti degli altri paesi belligeranti. Tuttavia all’inizio del conflitto era possibile notare il diffondersi di una certa eccitazione, capace di stimolare un poco tutti al patriottismo. Anche i civili avvertivano tale incitamento, ma ne venivano colpiti soprattutto i militari, sui quali agivano contemporaneamente sia i mezzi coercitivi,  sia i valori di cameratismo e solidarietà propri dei combattenti, sia i naturali fattori agonistici che tendono a manifestarsi con l’esercizio delle armi.

Nel maggio del 1915 non c’erano ancora le idee e la pratica della guerra totale, e  lo spirito risorgimentale e garibaldino animava tanti combattenti.
Comunque talvolta non si era contro la guerra anche per motivi  contingenti per es.:
  • nell’Italia del 1915, la popolazione era in gran parte  costituita da analfabeti o semianalfabeti, da modestissimi contadini o operai o artigiani, che in genere vivevano in condizioni disagiate, quindi il vitto quotidiano, assicurato dalla appartenenza all’Esercito, rappresentava per loro un notevole miglioramento delle condizioni di vita; 
  • all’epoca per quasi tutti gli italiani rarissime erano le occasioni per muoversi, viaggiare e distrarsi, quindi il servizio militare, rompeva la monotonia della vita quotidiana, consentendo di conoscere luoghi e uomini nuovi.

Fin dall’inizio venne impedito a tutte le forze politiche favorevoli alla guerra, sia di destra (per es. i nazionalisti), sia di sinistra (repubblicani, socialisti radicali ecc.) di far sentire la propria voce in seno all’esercito.

Del tutto sporadicamente, in occasione di qualche cerimonia o alla vigilia di qualche azione pericolosa, i comandi si rivolgevano all’intellettuale, al letterato, all’avvocato interventista che ora vestiva la divisa di ufficiale, affinché pronunciasse un discorso d’incoraggiamento patriottico ai commilitoni, in nessun modo si verificò qualcosa che potesse far pensare ad una attività meditata e concertata di propaganda, sia pure sotto il controllo delle autorità militari.

Il 10 giugno 1915 il generale Zuppelli, ministro della guerra, inviò disposizioni ai comandi di corpo d’armata, di divisione e di reggimento perché s’impedisse agli interventisti rivoluzionari qualsiasi forma di propaganda. Proprio in questa fase a repubblicani, radicali socialisti ecc. nonché ai loro figli fu vietata la partecipazione ai corsi per allievi ufficiali. A tale divieto incorse, fra gli altri, Benito Mussolini.  
In precedenza (23 maggio) il Governo aveva deciso di vietare la costituzione di corpi volontari autonomi, perciò i Fratelli Garibaldi, che nel 1914 avevano formato in Francia la “legione italiana”, tornando in patria fecero parte dell’esercito regolare.

La liberazione delle regioni nord-orientali era uno dei primi obiettivi della guerra: si soleva dire ai soldati che il loro grande e meraviglioso compito fosse quello di redimere i fratelli  oppressi dall’Austria. Accadeva invece, con grande delusione degli interventisti, che proprio le popolazioni del Friuli orientale accogliessero con freddezza, con diffidenza e sovente con aperta antipatia i soldati italiani. A tal proposito anche Vittorio Emanuele III espresse il suo rammarico affermando: «La popolazione oltre confine, che è rimasta nelle case, non ci è amica».

Nonostante l’acquisto nell’aprile nel 1915 di un certo numero di cannoni, le artiglierie italiane erano ancora insufficienti e prive di adeguate scorte di munizioni. Scarseggiavano anche le armi leggere, infatti fanteria e bersaglieri all’inizio della guerra non avevano mitragliatrici e solo a luglio ne ricevettero due per ogni reggimento, mentre il nemico ne possedeva dapprima due e poi otto per battaglione. Erano sconosciute le bombe a mano e le prime cassette, giunte ai comandi, contenevano un modello assai imperfetto che nessuno sapeva adoperare.
Gli ufficiali, non avevano ricevuto in tempo le pistole d’ordinanza, perciò se non acquistavano da armaioli pistole di un qualunque  tipo, rimanevano disarmati.

I soldati erano circa un milione e mezzo, ma non erano disponibili altrettanti fucili modello 91, perciò si distribuivano anche gli antiquati moschetti Wetterli.
In quell’epoca le autovetture circolanti in Italia erano circa 20.000, ma il 24 maggio, al passaggio del confine, il secondo Corpo d’Armata, forte di diecine di migliaia di uomini, possedeva soltanto l’auto del comandante.

Nel maggio 1915 i soldati dell’esercito italiano avevano già la divisa di panno grigioverde, ma non possedevano l’elmetto, avendo come copricapo una sorta di chepì anch’esso di panno.

Le truppe italiane andavano ai primi assalti in formazioni molto fitte, e gli austriaci affermavano che tirare sugli italiani era più facile che tirare al bersaglio. Durante la guerra  di Libia i reparti avevano imparato a diradarsi, ma nell’estate del ’15 tale esperienza venne dimenticata. A questo proposito il generale Pettorelli-Lalatta, in data 27 agosto, scriveva: «E qui lanciamo ancora le fanterie all’assalto… a bandiera spiegata, ammassate, con musica».               

Secondo le disposizioni del comandante supremo Luigi Cadorna, contenute nella  circolare del 1915, intitolata “Attacco frontale ed ammaestramento tattico”(che, essendo stata ampiamente diffusa, era certamente nota anche al nemico), ogni azione della fanteria doveva essere preparata da tiri delle artiglierie capaci di spianare la via e di spazzare “coll’impeto e la massa del suo fuoco, ogni resistenza avversaria nella zona d’irruzione”. Ma nella pratica le nostre artiglierie, che erano imprecise e disponevano di un insufficiente numero di bocche di fuoco e di scarse munizioni, iniziavano il bombardamento sulle posizioni avversarie, del quale il principale effetto era quello di porre il nemico in stato di allarme, poiché raramente venivano colpiti i reticolati e le trincee nemici. Quando terminava il bombardamento  i fanti uscivano allo scoperto e trovavano i reticolati nemici intatti, e le mitragliatrici pronte a falciarli. Se poi il bombardamento aveva operato un varco nei reticolati (e creato dunque un passaggio obbligato), il compito dei tiratori austriaci era addirittura facilitato.

Il generale Cadorna, pienamente cosciente dell’impreparazione e dell’insufficiente equipaggiamento delle truppe, non perdeva occasione per chiedere al Governo di colmare le lacune che si andavano riscontrando. In particolare insisteva nel chiedere munizioni e cannoni, pretendendo anche che questi fossero funzionanti, in quanto ben ventidue obici erano esplosi per difetti “nelle bocche di fuoco e negli esplosivi”.    

Egli era convinto che le forbici taglia-fili potessero efficacemente servire ad aprire varchi nei reticolati nemici, perciò rimproverava il ministero di avergliele concesse “solo dopo lunghi stenti e pressanti insistenze”, ma esse non servirono a niente.
La probabilità che a causa dell’impreparazione il Regio Esercito andasse incontro ad un  insuccesso  nei primi scontri col nemico aveva anche indotto il Comandante Supremo a chiedere, il 17 giugno 1915, al Presidente del Consiglio Salandra d’intervenire sugli alleati perché iniziassero anch’essi un offensiva “contemporanea” al fine di mettere in crisi  gli Austriaci. Ma poi rompendo gl’indugi ordinò l’attacco. 

Ebbe cosi inizio la prima battaglia dell’Isonzo (23 giugno – 7 luglio), destinata al fallimento. Anche la seconda battaglia dell’Isonzo (18 luglio – 4 agosto) venne  da  Cadorna disposta senza la necessaria preparazione, ma immediatamente soltanto perché a causa dell’insuccesso della prima egli “sentiva salire la marea di malcontento” in tutti i settori dell’opinione pubblica.
Quando anche la seconda battaglia si concluse con elevate perdite e guadagni assai modesti, il Comandante supremo informò Salandra che non avrebbe più ripreso l’offensiva fino a che  non gli fossero stati forniti complementi, munizioni e rifornimenti in misura tale “da evitare per l’avvenire la grave crisi odierna”.
Così successivamente per oltre due mesi l’esercito rimase sostanzialmente fermo. 

Il 18 ottobre Cadorna, sia perché i mezzi tanto insistentemente richiesti gli erano in parte pervenuti, sia in quanto voleva assolutamente conseguire un successo prima della fine dell’anno per non sfigurare di fronte degli alleati nonché di fronte agli stessi italiani, decise di dare inizio alla terza battaglia dell’Isonzo, che terminò il 4 novembre, seguita a meno di una settimana dalla quarta (10 nov. – 2 dicembre).
Le suddette quattro battaglie comportarono la perdita di 183mila uomini, di cui 62mila i morti, ma i risultati furono molto modesti. Quindi svaniva l’illusione della ‘guerra breve’ ed una profonda crisi morale sopravvenne  nel corso delle offensive d’autunno, quando la pioggia, il fango, le sofferenze patite intristivano gli uomini e mutavano il volto della guerra.

Gli assalti si ripetevano con esasperante monotonia e sempre contro le medesime  posizioni. A tal proposito scriverà in seguito Curzio Malaparte: «… A un tratto, tranquillamente, la fanteria usciva dalle trincee e s’incamminava  trotterellando verso le mitragliatrici austriache, con un vocio confuso che nulla aveva di eroico. Gli uomini (o) cadevano a gruppi uno sull’altro…(oppure), senza un lamento, andavano a stendere le proprie carcasse sui fili di ferro spinato, come cenci ad asciugare».

Nel 1915 coloro che avevano immaginato rapide e vistose conquiste, potettero ricevere dal fronte notizie assai vaghe. Infatti i giornalisti non erano ammessi nelle zone di guerra, in tutto il Paese vigeva la censura e ben poco si poteva ricavare dalla lettura dei bollettini ufficiali, i quali peraltro finirono solo col suscitare allarmi e preoccupazioni in quanto, mentre all’inizio fornivano quotidianamente le cifre delle perdite subite dai reparti combattenti o da questi inflitte al nemico, avevano poi improvvisamente cessato di farlo.

Essendo anche le lettere dei combattenti rigorosamente censurate, il Paese cominciò ad intuire la cruda realtà del conflitto  dai racconti dei feriti ricoverati nelle retrovie o in convalescenza nelle proprie case, nonché dai soldati in licenza.
Tuttavia non mancò la vigilanza anche su detti militari e alcuni furono anche puniti e fatti rientrare nei reparti, mentre per volere di Cadorna veniva ridotta al minimo la concessione di licenze.

La crisi della guerra cronica, nata sul fiume Isonzo, era presto rimbalzata nel Paese procurando lutti e sofferenze inaudite, di fronte ai quali molto grave fu il disagio degli interventisti, perché più doloroso era in loro il crollo delle illusioni, più grande il peso delle responsabilità. A tal proposito scriverà poi A. Omodeo: «Lo smarrimento morale della guerra cronica fu la prova più amara per l’esercito. Falliva ciò per cui si era sognata la guerra: la rapidità tagliente delle risoluzioni.»
Gli interventisti che erano sotto le armi cominciarono ad essere trattati con odio e disprezzo dai commilitoni. Chi era partito volontario cercava di mantenere questo fatto assolutamente segreto.

Il 1° novembre 1915 B. Mussolini era al fronte e un soldato, incontrandolo, gli chiese: “Sei tu Mussolini?” “Si.” “Benone, ho una notizia da darti: hanno ammazzato Corridoni. Gli sta bene, ci ho gusto. Crepino tutti questi interventisti.”
 Il monaco barnabita padre Giovanni Semeria, cappellano militare, essendo stato un appassionato interventista,  al cospetto degli orrori della “provò  l’angoscia smarrita di aver tradito la sua vocazione sacerdotale”;  internato in una casa di cura svizzera, pensava addirittura di togliersi la vita, “credendosi colpevole della morte di giovani, di padri di famiglia, che alcuni suoi incitamenti potevano aver spinto alla guerra”.   

Cadorna chiedeva al Governo il massimo sforzo finanziario per ottenere gli uomini e i mezzi necessari per riprendere  nella primavera del ’16  la lotta con maggiori probabilità di successo. Ma la situazione finanziaria dello Stato era drammatica e preoccupava seriamente  il Capo del Governo, che il 18 settembre 1915 convocò i Ministri sia per informarli che le richieste del Comando supremo comportavano una spesa di 15 miliardi di lire, sia per porre loro la domanda: “Dove trovare tanto denaro?”

L’interrogativo rimase senza risposta e i ministri deliberarono molto genericamente che ognuno ci avrebbe pensato e poi proposto un programma di economie.
La guerra, dunque, era ormai entrata in una fase per molti versi incomprensibile, irrazionale, che lasciava senza risposta scottanti interrogativi.

I primi sei mesi della stessa avevano cancellato i trascorsi entusiasmi al punto che nel «…funereo autunno del 1915 […] le radiose giornate di maggio erano diventate il più fastidioso dei ricordi e il solo nominarle assumeva il sapore amaro del sarcasmo…» (V. Rino Alessi,  DALL’ISONZO  Al  PIAVE – A. Mondadori Editore 1966, pag. 13).

Pietro Congedo

martedì 16 febbraio 2016

Riflessioni di carattere politico sulla Grande Guerra: Religiosità e superstizione dei soldati durante la Grande Guerra


La mobilitazione generale (22 maggio 1915), alla quale tre giorni dopo seguì l’inizio delle ostilità dell’Italia contro l’Austria, determinò l’arrivo sotto le armi di centinaia di migliaia di uomini, che non erano soltanto laici. Infatti in breve tempo ci furono fra i mobilitati almeno 10mila appartenenti al clero secolare o regolare, che vennero comunemente detti “preti-soldati”.
Nel Governo Italiano al vertice del Ministero della Guerra c’era il generale Luigi Cadorna, cattolico praticante, che affrontò subito la questione dell’assistenza spirituale ai soldati, nella convinzione che il sacerdote fosse elemento di equilibrio e di conforto non solo per i feriti e gli ammalati, ma per tutti i combattenti, compresi quelli impegnati in prima linea.

L’iniziativa del Governo colse quasi impreparata la Chiesa che, tuttavia, con encomiabile tempestività stabilì la necessaria intesa con lo Stato. Infatti il 1° giugno 1915, la Sacra  Congregazione Concistoriale indicò come  Vescovo Castrense (ovvero Vescovo di Campo)  mons. Angelo Bartolomasi, Vescovo ausiliario della diocesi di Treviso. Successivi accordi tra lo Stato italiano e la Santa Sede portarono all’emanazione del R.D. 27 giugno 1915, con il quale fu istituita la Curia Castrense e resa ufficiale la nomina a Vescovo di Campo di mons. Bartolomasi. Questi, insediatosi a Treviso, ebbe affidati l’organizzazione e la direzione del servizio, il reperimento e rifornimento del materiale religioso, la formulazione del regolamento del clero militare, gli affari civili e militari per i territori occupati, le  conferme dei cappellani già mobilitati dalle direzioni di Sanità dei Corpi d’Armata territoriali, ma  soprattutto gli fu conferito il potere di scegliere fra i preti-soldati i cappellani militari, nella previsione che bisognava  assegnarne uno ad ogni reggimento.
Al Vescovo Castrense venne assegnato il grado e il trattamento economico di maggiore generale dell’esercito, mentre i suoi Vicari ebbero il grado di maggiore, i coadiutori dei Vicari quello di capitano e i semplici cappellani il grado di tenente.

Mons. Bartolomasi  si rivelò veramente capace di espletare il compito a cui era stato chiamato, come si evince dalla seguente dichiarazione fatta ai cappellani militari: «Sapete bene che in trincea non ci sono atei. Il pericolo accosta gli uomini a Dio e dunque al sacerdote che di Dio è il ministro. Il conflitto è una grande occasione di apostolato, per ridare la fede ai dubbiosi e rinsaldare tra la Chiesa e i battezzati quei legami che la pacifica vita di tutti i giorni ha così spesso allentati. […]». Inoltre egli accortamente esortava i suoi subordinati ad operare anche al di fuori dell’ambito strettamente religioso, dicendo loro: «Fatevi anche gli umili e buoni segretari dei soldati e quando questi non possono, non sanno scrivere, fate voi per loro.»

Comunque non tutti  i religiosi mobilitati divennero cappellani. In particolare fra i suddetti 10mila, richiamati nell’estate 1915, solo 700 furono scelti da mons. Bartolomasi. E’ stato poi appurato che, durante l’intero corso della guerra, gli ecclesiastici alle armi furono 24.446 e i cappellani 2.400.
 Per ovviare all’insoddisfazione di coloro che erano rimasti semplici preti-soldati fu riconosciuto loro il diritto di chiedere il passaggio alle compagnie di Sanità, che comprendevano anche il Corpo ausiliario militare della Croce Rossa, dove svolgendo mansioni di infermieri, portaferiti ecc., potevano raggiungere il grado di sergente.

Fra i preti non cappellani, però, fu possibile riscontrare una varietà di situazioni. Risulta, fra l’altro, che 1.582 religiosi, in virtù dei titoli di studio posseduti, furono ammessi a frequentare i corsi di allievi ufficiali, divenendo poi tenenti o capitani.

La nomina a cappellano militare, che era a tutti gli effetti una promozione, prevedeva la presenza nei reparti combattenti, dei quali indossavano divisa, fregi ed emblemi con la sola aggiunta di una croce di panno sul lato sinistro della giubba.

L’attività dei cappellani richiedeva il disprezzo del pericolo al fine di poter visitare i combattenti nelle trincee per assisterli durante le azioni. Molti ottennero encomi e decorazioni per il coraggio dimostrato in mezzo alle battaglie, ed è singolare constatare che alcuni compirono atti di valore in circostanze estranee alla missione sacerdotale. Per esempio: don Sebastiano Allio del 33° fanteria nell’ottobre 1915 sul monte Sabotino salvò la bandiera del reggimento rimasta in una casa, sulla quale sparava l’artiglieria nemica; don Giovanni Minzoni, cappellano del 255° reggimento fanteria, il 15 giugno 1918 durante la battaglia del Piave imbracciò il fucile e alla testa di una pattuglia di arditi si lanciò contro il nemico. Perciò fu decorato con medaglia d’argento.

La guerra avvicinava gli uomini alla Chiesa, ma fin dall’inizio ci fu chi sosteneva che la maggiore partecipazione dei fedeli (combattenti e non combattenti) alle pratiche religiose testimoniasse un autentico risveglio religioso, e chi viceversa vedeva nella più numerosa partecipazione ai riti religiosi un riflesso delle paure e delle superstizioni che in quel triste periodo dominavano gli individui.
Gli ecclesiastici al fronte erano i primi a dubitare dell’autenticità del risveglio religioso, anche se giornalmente si trovavano di fronte a fatti come i seguenti:

  • un soldato calabrese passava di trincea in trincea portandosi dietro una grossa croce di ferro, che poi piantava vicino alla sua postazione;
  • un capitano ferito al torace vietava al medico, che lo operava, di togliergli dal  collo la catenina con la medaglietta della Madonna;
  • moltissimi soldati portavano sul berretto o sulla divisa o al polso medagliette religiose, considerandole veri e propri portafortuna. 

D’altronde durante la guerra le superstizioni si propagavano in maniera impressionante in tutti gli eserciti.

Nei momenti di pericolo: il fante abruzzese, che usava portare sul petto un po’ di terra del paese natio, ne gettava un pizzico dietro le proprie spalle; l’ufficiale calabrese stringeva al petto una crocetta di legno stregato; i soldati piemontesi pronunciavano la formula magica «Samel Arant, Samel Su»; i fanti lombardi conservavano gelosamente le schegge del ceppo natalizio (sciocc de Natal), portandosele appresso in un sacchetto; i militare francesi per vincere la paura stringevano una pietra a forma di cuore, che avevano sempre con sé; i soldati inglesi stringevano invece il cuore di un gatto nero; la corda servita per impiccagione a Trento di Cesare Battisti, fu ridotta in minutissimi pezzi, contesi avidamente come portafortuna dai militari austro-ungarici presenti all’esecuzione; molti erano i soldati che avevano lunghi chiodi di ferro o addirittura ingombranti ferri di cavallo cuciti al cinturone. Benito Mussolini confessò di portare al dito mignolo un anello fatto con un chiodo di cavallo.

In genere le pratiche superstiziose appartenevano alla tradizione popolare delle regioni, dalle quali provenivano i soldati, ma in zone di guerra le stesse si mescolavano con grandissima rapidità. Alcune di esse divennero internazionali, come, per esempio, il divieto di accendere tre sigarette con lo stesso fiammifero.

Con una circolare del 19 dicembre 1916 l’Intendente generale dell’Esercito comunicava che in alcuni ospedali i cappellani e le suore compivano, sia pure involontariamente, propaganda pacifista, insegnando preghiere e invocazioni atte a deprimere lo spirito guerresco degli assistiti. Il Comando Supremo – si leggeva nella  circolare – desiderava invece che l’opera di assistenza assumesse carattere più virile e consono alle ineluttabili necessità del momento.

Il successivo 13 gennaio lo stesso Comando Supremo invitò i comandi in sottordine a vigilare sulla corrispondenza  di contenuto pacifista o religioso, ricevuta dai soldati.

Nel 1917 ci fu forte tensione tra le autorità militari e i cappellani, quando questi ultimi, su proposta di padre Agostino Gemelli, procedettero alla “consacrazione dell’esercito al Sacro Cuore di Gesù”. Consacrazione questa che fu effettuata  in maniera collettiva, con la partecipazione volontaria dei soldati alle funzioni religiose del 1° venerdì del mese. Ogni partecipante ricevette l’immagine del Sacro Cuore, quale simbolo dell’avvenuta consacrazione e degli impegni da essa derivanti (i soldati, fra l’altro, si erano obbligati a far consacrare anche le loro famiglie). Le numerose manifestazioni relative all’iniziativa furono quasi sempre bene accolte, ma non mancarono altrettanti dissenzienti. Infatti alla fine di febbraio il Ministero della Guerra diramò una circolare, nella quale si precisava che l’iniziativa di padre Gemelli non era stata autorizzata e, soprattutto, si giudicava la stessa “consacrazione” come pericolosa per la disciplina, in quanto essa, imponendo ai soldati “consacrati” di portare sulla giubba o sul berretto il simbolo del Sacro Cuore, determinava “una palese differenziazione fra i militari di una stessa fede religiosa”.

Mons. Bartolomasi dispose allora che detto simbolo fosse portato dai soldati in modo non visibile. Ma l’Autorità militare non fu d’accordo, e lo stesso Bartolomasi dovette ordinare ai cappellani di desistere dall’iniziativa.

Grande amarezza provò il Vescovo Castrense quando, essendo stata vietata nell’esercito la preghiera scritta da papa Benedetto XV per la pace, egli stesso dovette compiere ispezioni  per accertarsi che il divieto fosse rispettato.      

Comunque, a parte i problemi creati dalla Consacrazione al S. Cuore di Gesù e dal divieto di pregare
per la pace, lo stato d’animo dei cappellani mutò sensibilmente tra la fine del 1916 e l’inizio del 1917. Infatti, svanita l’aspettativa di una breve durata delle ostilità, i sacrifici di ogni genere uniti agli orrori delle battaglie causavano stanchezza e sfiducia ai cappellani e ai preti-soldati, come a tutti i combattenti. Ma ai cappellani, che all’inizio avevano considerato la guerra come occasione di apostolato, i lunghi mesi trascorsi al fronte mettevano a dura prova la loro stessa vocazione.
Il conflitto, iniziato con imponenti manifestazioni di devozione collettiva, riservò ai cappellani sorprese e delusioni, in quanto si constatava un crescente assenteismo dei soldati dalle funzioni sacre, sintomo evidente di notevole rilassamento nella religiosità e nella moralità.

In occasione della prima Pasqua di guerra (1916) nella maggior parte dei reggimenti, essendoci stata una partecipazione alle funzioni religiose superiore all’80%, le confessioni andarono molto per le lunghe. Perciò alcuni cappellani per la Pasqua 1917, prevedendo un uguale  afflusso di fedeli, chiesero a preti-soldati di aiutarli nelle confessioni. Ma i confessori attesero invano i penitenti, poiché se ne presentò appena il 4% , di cui la maggior parte seminaristi.
In un convegno di cappellani uno degli intervenuti affermò che, ormai, il sacrificio di se stessi era l’unico modo efficace all’esercizio della propria missione.

Ognuno si rendeva conto che le belle parole avevano perduto il loro fascino, infatti perfino i discorsi patriottici di padre Giovanni Semeria (1867 – 1931), predicatore barnabita famoso per il suo impegno nell’ambizioso progetto di dare agli “orfani di guerra” una casa, e con essa un’educazione e una famiglia, venivano accolti dalle truppe con fischi ed altre rumorose proteste.
Nell’agosto 1917 la pubblicazione da parte di papa Benedetto XV della “nota diplomatica” (tendente alla sostituzione della guerra in corso con un arbitrato internazionale, atto a far cessare la “inutile strage”) fu accolta malissimo dai Generali. In particolare Cadorna si preoccupava che le parole del pontefice demoralizzassero le truppe, impegnate proprio in quelle ore nella battaglia sull’altopiano della Bainzizza.

Invece le parole del pontefice aumentarono la combattività dei soldati, poiché si ricorse all’espediente di dire loro: «Il papa vuole la pace: è giusto, è bene, ma noi la pace l’avremo dando un buon colpo al nemico. Vedete, questo è proprio l’ultimo sforzo: diamogli dunque addosso!»

Pietro Congedo