sabato 10 dicembre 2016

Vi racconto la Grande Guerra




LA PRIMA GUERRA MONDIALE
24 maggio 1915 – 4 novembre 1918



P A R T E  P R I M A

Vicende militari relative alla partecipazione dell’Italia
alla Grande Guerra 1914 - 1918
    

Il secolo XX si aprì con l’esibizione di ottimismo della grande Esposizione Universale di Parigi del 1900 e con lo sfarzo spensierato de “la belle époque”. In quel mondo luminoso però diventarono più profonde le ingiustizie sociali, crebbero i semi del nazionalismo e si svilupparono le visioni intellettuali che spingevano al conflitto. Molti, soprattutto fra i giovani, vedevano nella guerra qualcosa di necessario, un destino ineluttabile, un’occasione imperdibile: la guerra come motore di rigenerazione, un cataclisma purificatore.

L’Europa era suddivisa in tre aree di influenza: al centro Austria e Germania, a oriente l’Impero di Russia, a occidente Francia e Inghilterra. Gli occhi di tutti erano puntati, forse inconsciamente, verso la polveriera dei Balcani, il territorio più instabile e a rischio dell’intera Europa. E proprio nei Balcani si accese, la miccia che avrebbe portato il mondo ad un’immane catastrofe.

Infatti il 28 giugno 1914, a Sarajevo (Bosnia-Erzegovina), lo studente serbo Gravilo Princip, coadiuvato da tre compagni, tutti come lui decisi a vendicare i popoli slavi oppressi dall’Austria, uccise il principe ereditario, arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo.

Il successivo 23 luglio l’Austria inviò un ultimatum alla Serbia; cinque giorni dopo scoppiò la guerra fra i due Stati.

Questo colse di sorpresa l’Italia, la quale nel 1882, per uscire dall'isolamento causatole dalla presa di Roma, aveva stipulato con Austria e Germania la cosiddetta Triplice Alleanza, che aveva solo carattere difensivo e comunque prescriveva la consultazione fra gli Stati membri in caso di operazioni militari tendenti a mutare lo status quo balcanico.

Poiché la guerra in corso, oltre a non avere carattere difensivo per l’Austria, avrebbe potuto modificare l’assetto politico dei Balcani, l’Italia il 2 agosto 1914 a buon diritto proclamò solennemente la propria ‘neutralità’. Questo provocò la divisione degli italiani in due correnti contrastanti: i ‘neutralisti’ e gli ‘interventisti’.

Erano per la neutralità: i cattolici, i socialisti e i liberali, che facevano tutti capo a Giovanni Giolitti, primo ministro dal 1903 al 1913, il quale sosteneva che l’Austria con trattative dirette avrebbe concesso parecchio (termine questo usato dallo stesso Giolitti) di quanto rivendicato dall’Italia in ordine al completamento della propria unità nazionale.

Invece erano interventisti, cioè favorevoli all’entrata in guerra: i nazionalisti di estrema destra, capeggiati dal poeta Gabriele D’Annunzio; gli irredentisti con a capo Cesare Battisti; e i democratici, guidati da Leonida Bissolati e da Gaetano Salvemini, che vedevano nella guerra lo strumento per mettere fine al predominio dell’Impero Asburgico su altri popoli e alla forza reazionaria ed imperialistica della Germania.

All'inizio sembrava che fossero prevalenti i neutralisti, ma poi divennero sempre più frequenti le “conversioni” da neutralisti a interventisti.

I membri del Governo e soprattutto il suo capo, Antonio Salandra, e Giorgio Sidney Sonnino, ministro degli esteri, erano per l’entrata in guerra dell’Italia contro Austria e Germania. Quindi il 26 aprile, all'insaputa del Parlamento, proprio da Sonnino fu stipulato segretamente con l’Intesa il cosiddetto ‘Patto di Londra’, per il quale l’Italia, impegnandosi ad entrare in guerra entro un mese, in caso di vittoria avrebbe ottenuto: il Trentino fino al Brennero, cioè col Sud Tirolo etnicamente tedesco; Trieste con le Alpi Giulie, tutta l’Istria e quasi tutta la Dalmazia; Valona col suo entroterra albanese ed un trattamento da grande potenza coloniale nella spartizione delle colonie tedesche in Africa e nel Medio Oriente.

Quando si diffusero notizie relative sia a detto patto che alla sollecitazione, fatta al Governo il 1° maggio dallo stesso ministro Sonnino, a rinnegare la Triplice Alleanza, ci furono in tutto il Paese gravi reazioni pro e contro la guerra.

Pertanto Salandra il 13 maggio presentò le proprie dimissioni che provocarono imponenti dimostrazioni degli interventisti.

Il 16 maggio il Re respinse le dimissioni del Capo del Governo, minacciando di abdicare se il Parlamento si fosse opposto all’intervento in guerra. Perciò il 20 maggio sia la Camera dei Deputati che il Senato del Regno conferirono poteri straordinari al Governo Salandra, il quale dopo due giorni avviò la mobilitazione generale e dichiarò guerra all’Austria il 24 maggio 1915.

All’inizio delle ostilità le nostre truppe, comandate dal sessantacinquenne generale Luigi Cadorna, che più che stratega era un burocrate, erano insufficienti nonché male equipaggiate e anche sprovviste di un adeguato servizio d’informazioni.

Nella valle del fiume Isonzo, al confine orientale italiano del 1866, il nostro Esercito nei primi 28 mesi di guerra combatté ‘undici battaglie’, dette appunto ‘dell’Isonzo’.

Indro Montanelli nel 36° volume della sua Storia d’Italia (1995, Milano, p. 91), riferendosi a Cadorna, ha scritto:
«… Per lui il modulo dell’attacco era sempre quello: fuoco concentrato su fortificazioni e reticolati avversari, poi irruzione di reparti affiancati nei valichi così aperti. Neanche quando l’esperienza ebbe dimostrato che le nostre scarse ed approssimative artiglierie i valichi non li aprivano e che “i poveri fanti andavano a stendere le loro carcasse sugli intatti reticolati come cenci ad asciugare”, Cadorna cambiò idea. Non poteva cambiarla perché non ne aveva altre. Egli concepiva la guerra come gigantesca operazione d’assedio da portare avanti, uomo contro uomo, trincea contro trincea, a “chi la dura la vince” ».

Inoltre in tutte le battaglie dell’Isonzo i soldati italiani vennero a trovarsi nella infelice condizione di dover combattere, partendo generalmente dal piano del fondovalle contro un nemico saldamente arroccato su alture.

In particolare le prime quattro battaglie dell’Isonzo, che ebbero luogo da giugno a dicembre 1915 e avevano come obiettivi i monti Kuk (alto 956 m.), Podgora (a. 241 m.), San Michele (a. 275 m.) ecc., si conclusero con risultati complessivi insignificanti, malgrado le gravissime perdite ammontanti a 183mila uomini, di cui 62mila morti, laddove per le tre guerre d’indipendenza e la presa di Roma i caduti erano stati in tutto appena 6mila.

Ciò portò all’amara constatazione che la guerra sarebbe stata lunga e luttuosa e, quindi, allo scoramento o addirittura all’odio verso chi l’aveva voluta e soprattutto contro il Comandante supremo che, oltre a condurne le operazioni in maniera inadeguata, imponeva ai soldati un ferrea e odiosa disciplina. Infatti Cadorna, il quale fin dal 1915 aveva ordinato che gli ufficiali dovessero punire gli atti d’indisciplina dei soldati con “estreme misure di coercizione e repressione”, arrivò ad imporre la “giustizia del piombo” (cioè la fucilazione) per chiunque avesse cercato di arrendersi o ritirarsi, ordinando altresì che tribunali improvvisati sul campo (anche se costituiti da un solo ufficiale) potessero emettere inappellabili sentenze di morte. Inoltre adottò la “decimazione”, lugubre emblema della giustizia militare italiana.

Anche la V battaglia (9 – 15 marzo 1916) fu particolarmente aspra e con notevoli perdite tra Monte S. Michele e San Martino, che però rimasero in mano al nemico.

Il 15 maggio 1916 gli austriaci misero in atto nel Trentino una “spedizione punitiva” contro gli italiani che, secondo loro, non avrebbero dovuto disdire la Triplice Alleanza per unirsi alle potenze dell’Intesa. Tale spedizione, preparata con cura e condotta con ingenti forze, all’inizio ebbe successo, perché le truppe austro-ungariche giunsero fino ad Asiago ed alla pianura veneta, minacciando da vicino Vicenza. Ma i cardini dove si saldava il fronte del Trentino resistettero eroicamente, permettendo alle nostre truppe di passare alla controffensiva e riconquistare parte delle posizioni perdute. Tuttavia le perdite italiane raggiunsero la spaventosa cifra di 147mila uomini, mentre Asiago ed altre città dell’altopiano dei Sette Comuni rimasero saccheggiate e bruciate.

Tutto questo accrebbe il malcontento della classe politica e della società civile nei riguardi sia dello Stato Maggiore dell’Esercito sia del Governo Salandra – Sonnino, che fu costretto a dimettersi. Perciò si diede vita ad una nuova compagine ministeriale detta ‘di concentrazione nazionale’, presieduta da Paolo Boselli.

La VI battaglia dell’Isonzo ebbe luogo dal 6 al 17 agosto ed ebbe inizio con l’attacco al Monte San Michele alle ore 15,30 del primo giorno. “…Pur avendo subito gravi perdite le Brigate Catanzaro, Brescia e Ferrara conquistarono la vetta, mentre le Brigate Pisa e Regina si spinsero fino alle ultime case del paese di San Martino. Quella notte i contrattacchi sferrati da reparti ungheresi vennero respinti. […]. L’intero fronte crollò il giorno seguente. Tutta quella tetra collina rotondeggiante era finita saldamente in mano agli italiani. I soldati vagavano in cima alla sommità silenziosa, stupefatti di essere finalmente capaci di metter piede tra i cadaveri (delle precedenti battaglie – n. d. r.), le scatole di munizioni e i bossoli vuoti, gli stivali anneriti, i pezzi di fucile e gli zaini vuoti. Il principale ricordo di un ufficiale era quello del disgusto provato alla vista dei vermi, più di quanti ne avesse mai visti, che affioravano dal suolo, bianchi e teneri si contorcevano strisciando verso i corpi inanimati, se ne cibavano e riemergevano dalla occhiaie vuote e dalle bocche semiaperte… ”(V. Mark Thompson, La guerra bianca, Milano 2012, p. 188).

Le lotte per la conquista di Monte S. Michele erano costate alle truppe italiane, in 14 mesi, la perdita di almeno 110mila uomini, di cui 19mila i morti.

Un violento contrattacco nemico fu poi respinto e l’8 agosto gli italiani conquistarono Gorizia, ma non riuscirono ad andare oltre, pur lottando ostinata- mente contro il nemico che continuava ad infliggere loro gravi perdite.

Le due seguenti poesie sono state scritte sul campo dal fante Giuseppe Ungaretti rispettivamente prima e dopo la VI battaglia dell’Isonzo ed esprimono efficacemente i sentimenti dei combattenti.


Sono una creatura        
Valloncello della Cima Quattro    
5 agosto 1916                                  

Come questa pietra       
di S. Michele                   
così fredda                      
così dura                          
così prosciugata
così refrattaria               
così totalmente              
disanimata                      
                                          
Come questa pietra
è il mio pianto                
che non si vede              

La morte                          
si sconta                          
vivendo
San Martino del Carso
Valloncello dell’Albero Isolato
27 agosto 1916   

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto

Ma nel cuore
nessuna croce manca

E’ il  mio cuore
il paese più straziato

All’efficienza dimostrata dalle truppe italiane contribuì l’innovazione di far giungere in linea reggimenti composti esclusivamente da giovanissimi. Fino a Caporetto le nuove leve erano sempre servite per colmare i vuoti nei vari reggimenti, col risultato che l’entusiasmo giovanile si contraeva, si smarriva al contatto col pessimismo o col cinismo dei veterani. Inoltre nell’autunno-inverno 1917 si temeva che i nuovi arrivati fossero contagiati dal “disfattismo” di coloro che avevano partecipato alla ritirata. Perciò il Comando Supremo ordinò la costituzione di battaglioni complementari composti soltanto da reclute della classe 1899, i quali vennero mandati in linea dal novembre 1917. L’effetto psicologico di questa immissione di forze fresche, fu grandissimo, come venne constatato nella cosiddetta “battaglia del Piave o del solstizio”, che iniziò il 15 giugno 1918 e, dopo otto giorni di durissima lotta, terminò il 23, allorché il Comando austriaco, a causa della difesa ostinata e aggressiva degli italiani, ordinò la sospensione dell’offensiva e il ripiegamento sulla riva sinistra del fiume.
Delle successive battaglie dell’Isonzo, la VII, l’VIII e la IX, combattute dal settembre al novembre 1916 e durate 2 – 3 giorni ciascuna, le prime due portarono a risultati minimi e con la terza le nostre truppe avanzarono di pochi chilometri, mentre le vittime (morti + feriti) furono in totale ben 84.728.

La X battaglia dell’Isonzo ebbe luogo dal 12 al 26 maggio 1917. Dopo due giorni di bombardamento a tappeto gli italiani conquistarono alcune alture del Carso monfalconese, ma presto vennero respinti. Tuttavia tra Monte Santo e Zagora, a nord di Gorizia, riuscirono a passare l’Isonzo, a costruirvi una testa di ponte e a mantenerla. Ci fu la perdita di 160mila soldati, di cui 36mila i morti.

Questa battaglia ebbe un prosieguo lontano dal Carso, sull’Altopiano di Asiago, con un attacco al Monte Ortigara, un deserto roccioso alto 2.000 metri. Il 10 giugno le divisioni 29ma e 52ma, muovendosi sotto un pioggia torrenziale. Arrivarono quasi alla cima. Ma vi rimasero intrappolati sotto il fuoco delle mitragliatrici nemiche, davanti ai reticolati intatti, subendo perdite fino al 70%.

A causa della pioggia insistente solo il 18 giugno fu possibile riprendere i combattimenti e il giorno seguente soldati della 52ma divisione raggiunsero la cima e vi rimasero fino al 25, resistendo a bombardamenti e contrattacchi avversari, finché le truppe d’assalto nemiche non li spazzarono via con gas e lanciafiamme.
Morirono 25mila italiani senza alcun risultato apprezzabile.

Il 19 agosto 1917 il generale Cadorna, disponendo di oltre 500mila uomini bene armati, schierati sul fronte da Tolmino (nella parte superiore della valle) fino al Mare Adriatico, diede inizio all’XI battaglia dell’Isonzo.
Attraversato il fiume su ponti di fortuna, si puntò alla conquista della Bainsizza, altopiano calcareo a nord-est di Gorizia. Ciò avrebbe consentito, mediante l’espugnazione delle roccaforti dei monti S. Gabriele ed Hermada, di andare a rompere le linee nemiche.
Dopo una lotta aspra e sanguinosa le nostre truppe conquistarono una parte della Bainsizza, il Monte Santo ed altre postazioni, ma non riuscirono ad espugnare il San Gabriele e l’Hermada
Il giorno 29 lo stesso Cadorna, avendo già perduto più di 143mila uomini, ordinò di passare alla difensiva e, accontentandosi dei modesti risultati raggiunti sul piano tattico, andò con la moglie in vacanza nei pressi di Venezia.

All’XI battaglia partecipò eroicamente il sottotenente Sandro Pertini al comando di una sezione di mitraglieri, il quale venne proposto con un’ottima motivazione alla medaglia d’argento al valor militare. Ma tale decorazione non gli fu consegnata mentre il conflitto era in corso. Nel dopoguerra il regime fascista occultò la proposta e la relativa motivazione, poiché Pertini era socialista. Le stesse furono riprese quando egli fu eletto Presidente della Repubblica e, per sua esplicita richiesta, la medaglia gli fu consegnata a mandato scaduto, cioè nel 1985.

Il Comandante Supremo il 19 ottobre ritornò dalla vacanza calmo, riposato e convinto che non ci sarebbe stata offensiva nemica fino alla primavera del 1918. Convinzione questa nella quale egli persistette malgrado alcuni disertori nemici lo avessero informato che era imminente un poderoso attacco di reparti austriaci e tedeschi, diretto verso il settore del fronte difeso dal XXVIII corpo d’armata, comandato dal generale Pietro Badoglio. Anche quest’ultimo, avendo fra l’altro a disposizione più di 800 bocche di fuoco, con cui contrastare il nemico, non era per niente preoccupato per le informazioni fornite dai suddetti disertori.

Ma quando il 24 ottobre 1917 le batterie austro-tedesche aprirono il fuoco lungo un fronte di 30 chilometri, i cannoni italiani non spararono un solo colpo. Intanto nemici scendevano a plotoni affiancati attraverso la zona di Caporetto, piccolo comune in riva al fiume Isonzo.

Già la sera dello stesso 24 ottobre gli austro-tedeschi avevano superato la prima e la seconda linea italiana. Perciò il giorno dopo Badoglio si ridusse a vagare con i suoi collaboratori senza riuscire a stabilire un contatto con i reparti da lui dipendenti e, quindi, senza poter dare un ordine quando ce n’era tanto bisogno.

La sera del 25 ottobre fu evidente che le nostre linee di difesa avanzate erano in disfacimento, poiché risultavano perdute importanti posizioni conquistate con grandi sacrifici. Nello stesso tempo sembrava imminente la perdita di Monte San Michele, mentre le vie verso Udine e la pianura friulana erano completamente aperte.

Ricorda Sandro Pertini: "Della ritirata di Caporetto, alla quale assistetti, ho un ricordo preciso. Fu un avvenimento drammatico, una ritirata disperata, anche umiliante, sotto scrosci d’acqua che cadeva dal cielo. Ricordo a Udine i soldati sbandati che s’imbattevano nella vettura dove c’erano il re Vittorio Emanuele III e il comandante supremo Cadorna. Le insolenze che venivano gettate contro quella vettura!
E loro, il Re e Cadorna, pallidi come morti, impassibili, mentre i carabinieri intervenivano per allontanare i soldati che gridavano: vigliacchi ci avete tradito!"
In conseguenza dello sfascio del fronte isontino le truppe italiane dovettero sgomberare anche l’intera linea d’alta quota dalle Alpi Giulie e Carniche alle Dolomiti e ai Monti Fiemme fino alla Valsugana.
Fortunatamente le Armate III e IV riuscirono a ripiegare in ordine, attestandosi sul fiume Piave e collegandosi attraverso il Monte Grappa con il fronte del Trentino, che aveva resistito all’attacco.
La disfatta di Caporetto costò all’Italia 11mila morti, 30mila feriti, circa 350mila prigionieri (tra cui un decina di generali), 400mila tra disertori e sbandati, 3200 cannoni, 1700 bombarde, 3mila mitragliatrici, 300mila fucili ecc.
Anche dopo lo sconquasso di Caporetto Cadorna, anziché riconoscere i suoi madornali errori, si premurò ad ordinare a fucilazione dei poveri sbandati, che credendo conclusa la guerra e legittimo lo sbandamento, se ne tornavano tranquilli e palesi alle proprie case.

Proprio in questa fase del conflitto fu sul punto di essere fucilato il famoso scrittore americano Ernest Emingway che, arruolatosi volontario come autista di ambulanze, era poi diventato tenente del relativo reparto e, come tale, partecipò alla ritirata di Caporetto. Egli nelle pp. 209 – 213, del suo libro Addio alle armi (Ed. Oscar Mondadori, Milano, 2014) ha descritto come riuscì a sottrarsi alla “giustizia del piombo” gettandosi nel fiume Tagliamento e nuotando sott’acqua.
Il generale Cadorna oltre a perseguitare i militari sbandati, ai quali aveva intimato di costituirsi, aveva deciso pene severe nei riguardi di quanti avessero dato loro ospitalità o qualunque altro genere di aiuto. Ma l’8 novembre 1917 il nuovo Governo, presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, lo costrinse a dimettersi, promuovendo al grado di Comandante Supremo dell’Esercito il generale di corpo d’armata Armando Diaz, che proprio sul Piave diede il meglio di sé.

Tutti i reparti che avevano arrestato il nemico su tale linea presto rivelarono una combattività molto migliorata, in quanto sostenuta da spirito di rivincita. Infatti essi si dimostrarono molto capaci a respingere con decisione le truppe austro-tedesche che cercavano di passare il fiume.
Armando Diaz seppe valorizzare questa rinnovata combattività delle truppe, cercando innanzitutto di ripristinare la consistenza dei reparti. A tal proposito emise ordinanze con cui esortava i numerosissimi sbandati a consegnarsi senza timore alle autorità locali per essere avviati ai cosiddetti ‘campi di assembramento’, allestiti in Emilia. Nello stesso tempo egli stabilì una linea di comprensione tra l’esercito e il paese. Infatti nell’arco di un mese fece migliorare il vitto ed aumentare la paga ai soldati, ai quali le licenze ordinarie (quelle che Cadorna concedeva col contagocce, al fine di impedire la diffusione di notizie relative ai suoi frequenti insuccessi) non solo si cominciò a concederle con regolarità, ma addirittura furono portate da 15 a 25 giorni. Inoltre ad ogni militare venne garantita un’assicurazione gratuita, per cui le famiglie dei caduti avrebbero ricevuto l’indennizzo senza ritardi.
Quanto alla disciplina Diaz non ripudiò ufficialmente le perverse regole introdotte da Cadorna: semplicemente si astenne dall’impiegarle. Pertanto non ci furono più né processi sommari concludentisi con fucilazioni né decimazioni.

Tutto questo assicurò al Comandante Supremo l’incondizionato appoggio sia del Governo che dell’intero popolo Italiano. Perfino Filippo Turati, importante esponente socialista che non aveva mai voluto la guerra, dichiarò che bisognava dar tutte le energie per la resistenza. Nello stesso tempo il presidente della Camera dei Deputati, on. Marcora, e i quattro ex presidenti del Consiglio, Boselli, Giolitti, Salandra e Luzzati, riunitisi il 10 novembre 1917, stabilirono di impegnarsi a fondo affinché tutte le forze del Paese, sopite le lotte fra partiti, si cimentassero e tendessero alla difesa della Patria.

Dal punto di vista strategico i principi cadorniani della difesa rigida, lineare, detta “a cordone”, furono sconvolti: Diaz preferiva una difesa elastica e scaglionata in profondità, così da rendere immediato e tempestivo il contrattacco. Per altro verso egli imponeva il principio dell’inscindibilità della Divisione, non più utilizzata su diversi fronti per Brigate e Battaglioni, favorendo al contrario la saldezza dei reparti.

Alla fine del terribile 1917, che sembrava relativamente tranquilla, gli italiani si chiedevano con apprensione: come sarà il 1918? Presto però si poté guardare al nuovo anno con un certo ottimismo.

Infatti tra il 28 e il 29 gennaio le truppe italiane già dimostrarono notevole capacità di ripresa e buona preparazione. Infatti con una brillante controffensiva sull’Altopiano di Asiago conquistarono posizioni di alto valore strategico.

Da gennaio a maggio vennero rimpiazzati tutti i materiali perduti nella ritirata di Caporetto, mentre le varie Divisioni venivano ringiovanite con il reclutamento dei ‘ragazzi del 99’, allora appena diciottenni.
Dal 15 al 23 giugno ebbe luogo la cosiddetta ‘battaglia del solstizio’ o del Piave: gli austriaci nella notte del 15 con un violento bombardamento iniziarono un’operazione sull’Altopiano di Asiago e un’altra contro il Montello e il Basso Piave.
Ma i reparti italiani addetti ai grossi calibri, che già da tempo avevano adottato il ‘criterio della contropreparazione’, aprirono prontamente il fuoco contro il nemico o addirittura in vari settori lo anticiparono.
Dopo otto giorni di durissima lotta gli austro-ungarici a causa della difesa ostinata e aggressiva delle nostre truppe sospesero l’offensiva e, abbandonando le teste di ponte che avevano conquistato sulla riva destra, ripiegarono sulla riva sinistra del Piave, accusando una perdita di 150mila uomini tra morti e feriti e lasciando 45mila prigionieri, mentre gli italiani ebbero oltre 6mila caduti, circa 52mila dispersi, 27.660 feriti e 25mila prigionieri.

In questa fase della guerra Giuseppe Ungaretti faceva parte di un reggimento di fanteria italiano inviato sul fronte occidentale, in Francia. Qui, nel Bosco di Courton, egli ebbe l’ispirazione a paragonare la precarietà esistenziale dei soldati alla caduta delle foglie in autunno e compose la seguente poesia:

Soldati
Bosco di Courton luglio 1918

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie

Nell’autunno, viste le più che soddisfacenti condizioni del nostro Esercito, considerati gli insuccessi dei nemici in Francia e nei Balcani e tenute presenti le sollecitazioni del Governo e degli Alleati, Armando Diaz decise l’offensiva contro l’Austria, che risultò definitiva.
L’attacco ebbe inizio alle ore 3 del 24 ottobre 1918, anniversario di Caporetto, con un violentissimo bombardamento.
I genieri italiani avevano in programma il gittamento di sette ponti sul Piave per far passare i reparti sulla sponda opposta, ma riuscirono a costruirne solo due a causa delle cattive condizioni del fiume e dell’intenso fuoco delle artiglierie nemiche.
Tuttavia nella notte del 27 ottobre furono costituite tre teste di ponte sulla sponda sinistra, che, prontamente attaccate dagli austro-ungarici rischiavano l’eliminazione.

A questo punto il comandante dell’VIII Armata, generale Enrico Caviglia, di sua iniziativa diede ordine ad alcuni reparti di passare il fiume su ponti di barche partendo da Palazzòn, sulla sponda destra, e una volta raggiunta la riva sinistra puntare decisamente su Conegliano.
Questa fu la mossa vincente! L’attacco riprese slancio su tutto il fronte del Piave.

Il 29 ottobre l’VIII Armata avanzava travolgendo tutte le resistenze nemiche.
Intanto all’alba dello stesso giorno 29 era pervenuta al Comando Supremo Italiano una lettera, con la quale il generale austriaco Viktor Weber von Webenan chiedeva, a nome del Governo di Vienna, di iniziare le trattative per un armistizio.
La mattina del 30 ottobre le truppe italiane iniziarono un’avanzata dallo Stelvio al Mare Adriatico e in breve la cavalleria e i bersaglieri ciclisti occuparono Vittorio Veneto, spezzando in due lo schieramento nemico.
Il 1° novembre fu conquistata Belluno, mentre Udine e Rovereto furono liberate il 2 novembre.

Nel pomeriggio del 3 novembre fu occupata Trento e quasi nelle stesse ore l’Audace e altri tre cacciatorpediniere sbarcavano a Trieste due battaglioni di bersaglieri, accolti entusiasticamente dalla popolazione che trovarono in condizioni miserevoli.
Le perdite dell’Esercito italiano dal 24 ottobre al 3 novembre 1918 ammontarono 36.468 tra morti, dispersi e feriti.

Il 3 novembre 1918, alle ore 18, a Villa Giusti, presso Padova, i plenipotenziari di Italia e Austria firmarono l’armistizio, che fissava alle ore 15 del 4 novembre la fine delle ostilità.

E proprio il 4 novembre, alle ore 12, il generale A. Diaz diramò alle truppe e alla Nazione il bollettino di guerra n. 1268 (cioè con numero d’ordine uguale a quello dei giorni di guerra), che è entrato nella memoria collettiva, perché rappresenta la conclusione positiva della gloriosa parabola risorgimentale contro il nemico di sempre, conclusione costata all’Italia 645mila morti.

Detto bollettino inizia affermando: “La guerra contro l’Austria-Ungheria, che sotto la guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace condusse ininterrotta e asprissima per 41 mesi, è vinta. …”. Lo stesso termina dicendo: “… I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.



P A R T E S E C O N D A


La Prima Guerra Mondiale, conflitto di grande logoramento e distruzione, fu ben diverso dalle mitizzate guerre risorgimentali del XIX secolo.
Tuttavia, dopo il 1918 e soprattutto nel ventennio fascista, in Italia si andò affermando il suo mito e non la sua vera storia. D’altronde nelle università non esistevano ancora cattedre di ‘storia contemporanea’, ma soltanto di ‘storia del Risorgimento’, mentre gli archivi storici rimanevano accuratamene sigillati.

Tale situazione durò fino a dopo la ‘Seconda guerra mondiale’, allorché la memorialistica cominciò ad occuparsi intensamente delle drammatiche realtà e dei contrasti che avevano caratterizzato la Grande Guerra. Questo avvenne ad opera di studiosi quali: Emilio Lussu, Luigi Albertini, Piero Pieri, Brunello Vigezzi, Rodolfo Mosca, Paolo Spriano, Angelo Gatti, Mario Silvestri, G. Prezzolini e tanti altri.

Fu in questo clima che nel 1969 uscì la prima edizione di Storia Politica della Grande Guerra 1915 – 1918, monumentale opera del prof. Piero Melograni (1930 – 2012), un classico della storiografia sul primo conflitto mondiale, che è stato riproposto immutato nelle successive edizioni, non cambiando mai quella carica anticonformistica che la rende opera di rottura rispetto agli studi precedenti, i quali, come già accennato, tendevano alla retorica ed alla mitizzazione.

Nelle pagine seguenti sono riportati otto brani, il cui insieme è un brevissimo riassunto, prodotto solo a scopo divulgativo, del poderoso volume di oltre 500 pagine “Piero Melograni, Storia politica della Grande Guerra 1915-1918, Oscar Mondadori, 2015”.

  

Considerazioni di carattere politico sulla Grande Guerra

Le contraddittorie vicende dei primi sei mesi di conflitto


Quando il 24 maggio 1915 ebbero inizio le ostilità dell’Italia contro l’Austria [mentre quelle di Austria-Ungheria contro la Serbia erano già iniziate il 28 luglio 1914 e in breve avevano coinvolto sia Russia, Francia e Inghilterra (alleate della Serbia) che la Germania (alleata dell’Austria)] il tumultuoso contrasto tra neutralisti e interventisti si placò non tanto a causa dei silenzi imposti dalla censura sulla stampa o dalle nuove leggi di Pubblica Sicurezza, quanto proprio per il turbamento e il disorientamento provocati in tutti i partiti dalla realtà della guerra.
Tuttavia il Partito socialista (che era sempre stato contrario alla guerra) adottava ufficialmente la formula del «non aderire né sabotare», i cattolici dichiaravano di volersi comportare da cittadini obbedienti alle leggi, i giolittiani mantenevano un atteggiamento prudente e riservato (mentre il loro capo in un patriottico discorso dichiarava di essere devoto al Re e di voler sostenere il Governo), e il cinquantenne Cesare De Lollis, fondatore del gruppo neutralista “Italia Nostra”, partiva volontario per il fronte.

Ma nelle città e ancor più nelle campagne larghe masse scarsamente politicizzate, già estranee al dibattito sull’intervento, tenevano un atteggiamento indifferente - se non addirittura ostile – nei riguardi del conflitto ormai in atto, il quale, non assomigliando per nulla alle tre brevi guerre d’indipendenza dell’800, richiedeva invece la partecipazione di tutti i cittadini, uomini e donne, sia per la costituzione di un esercito di enormi dimensioni, sia per l’indispensabile impegno produttivo dei campi e delle officine. In altri termini, mentre quella in atto era una guerra totale, guerra di masse e, come tale, molto dura e non certo breve, sul conto della stessa sia fra gli uomini della strada, sia fra quanti avevano responsabilità decisionali dominava l’idea del tutto falsa che si trattasse di un conflitto non diverso di quello per la conquista della Libia (1911-12).

Infatti il Governo non si preoccupava per niente dell’acquisto di ciò che in inverno sarebbe stato necessario all’Esercito: lo stato d’animo prevalente era quello di un’attesa fiduciosa. Non mancava certo l’angoscia nelle famiglie per i congiunti mandati al fronte, ma pochi erano veramente coscienti dei rischi e della gravità dell’impresa a cui la Nazione si era accinta.

I soldati partivano senza sapere quale spaventosa esperienza fosse la guerra che già si combatteva da circa dieci mesi in Francia o nei Balcani. Essi si avviavano e partecipavano ai primi combattimenti con un morale nel complesso abbastanza alto. Questo si riscontrava, però, nei combattenti evoluti culturalmente, mentre la grande massa di fanti contadini e analfabeti non solo non sapeva, ma neppure si preoccupava di sapere per quali ragioni la guerra era combattuta. A tale proposito Adolfo Omodeo scriverà: «…La guerra era sentita dal popolano come un fatto di natura simile alla vicenda delle stagioni: sarebbe passata, ma ci voleva pazienza; per il contadino, infatti, la guerra era un male, un castigo dei peccati: “Ma, una volta scatenatosi il flagello, lo accettava e lo sopportava virilmente, come il buon agricoltore regge alla tempesta e al solleone”».

Stati d’animo del tutto simili si ripetevano negli eserciti degli altri paesi belligeranti. Tuttavia all’inizio del conflitto era possibile notare il diffondersi di una certa eccitazione, capace di stimolare un poco tutti al patriottismo. Anche i civili avvertivano tale incitamento, ma ne venivano colpiti soprattutto i militari, sui quali agivano contemporaneamente sia i mezzi coercitivi, sia i valori di cameratismo e solidarietà propri dei combattenti, sia i naturali fattori agonistici che tendono a manifestarsi con l’esercizio delle armi.

Nel maggio del 1915 non c’erano ancora le idee e la pratica della guerra totale, e lo spirito risorgimentale e garibaldino animava tanti combattenti.
Comunque talvolta non si era contro la guerra anche per motivi contingenti, per es.:
  • nell’Italia del 1915, la popolazione era in gran parte costituita da analfabeti o semianalfabeti, da modestissimi contadini o operai o artigiani, che in genere vivevano in condizioni disagiate, quindi il vitto quotidiano, assicurato dalla appartenenza all’Esercito, rappresentava per loro un notevole miglioramento delle condizioni di vita; 
  • all’epoca per quasi tutti gli italiani rarissime erano le occasioni per muoversi, viaggiare e distrarsi, quindi il servizio militare, rompeva la monotonia della vita quotidiana, consentendo di conoscere luoghi e uomini nuovi.
Fin dall’inizio venne impedito a tutte le forze politiche favorevoli alla guerra, sia di destra (per es. i nazionalisti), sia di sinistra (repubblicani, socialisti radicali ecc.) di far sentire la propria voce in seno all’esercito.

Del tutto sporadicamente, in occasione di qualche cerimonia o alla vigilia di qualche azione pericolosa, i comandi si rivolgevano all’intellettuale, al letterato, all’avvocato interventista che ora vestiva la divisa di ufficiale, affinché pronunciasse un discorso d’incoraggiamento patriottico ai commilitoni, in nessun modo si verificò qualcosa che potesse far pensare ad una attività meditata e concertata di propaganda, sia pure sotto il controllo delle autorità militari.

Il 10 giugno 1915 il generale Zuppelli, ministro della guerra, inviò disposizioni ai comandi di corpo d’armata, di divisione e di reggimento perché s’impedisse agli interventisti rivoluzionari qualsiasi forma di propaganda. Proprio in questa fase a repubblicani, radicali socialisti ecc. nonché ai loro figli fu vietata la partecipazione ai corsi per allievi ufficiali. A tale divieto incorse, fra gli altri, Benito Mussolini.

In precedenza (23 maggio) il Governo aveva deciso di vietare la costituzione di corpi volontari autonomi, perciò i Fratelli Garibaldi, che nel 1914 avevano formato in Francia la “legione italiana”, tornando in patria fecero parte dell’esercito regolare.

La liberazione delle regioni nord-orientali era uno dei primi obiettivi della guerra: si soleva dire ai soldati che il loro grande e meraviglioso compito fosse quello di redimere i fratelli oppressi dall’Austria. Accadeva invece, con grande delusione degli interventisti, che proprio le popolazioni del Friuli orientale accogliessero con freddezza, con diffidenza e sovente con aperta antipatia i soldati italiani. A tal proposito anche Vittorio Emanuele III espresse il suo rammarico affermando: «La popolazione oltre confine, che è rimasta nelle case, non ci è amica».

Nonostante l’acquisto nell’aprile nel 1915 di un certo numero di cannoni, le artiglierie italiane erano ancora insufficienti e prive di adeguate scorte di munizioni. Scarseggiavano anche le armi leggere, infatti fanteria e bersaglieri all’inizio della guerra non avevano mitragliatrici e solo a luglio ne ricevettero due per ogni reggimento, mentre il nemico ne possedeva dapprima due e poi otto per battaglione. Erano sconosciute le bombe a mano e le prime cassette, giunte ai comandi, contenevano un modello assai imperfetto che nessuno sapeva adoperare.

Gli ufficiali, non avevano ricevuto in tempo le pistole d’ordinanza, perciò se non acquistavano da armaioli pistole di un qualunque tipo, rimanevano disarmati.

I soldati erano circa un milione e mezzo, ma non erano disponibili altrettanti fucili modello 91, perciò si distribuivano anche gli antiquati moschetti Wetterli.

In quell’epoca le autovetture circolanti in Italia erano circa 20.000, ma il 24 maggio, al passaggio del confine, il secondo Corpo d’Armata, forte di diecine di migliaia di uomini, possedeva soltanto l’auto del comandante.

Nel maggio 1915 i soldati dell’esercito italiano avevano già la divisa di panno grigioverde, ma non possedevano l’elmetto, avendo come copricapo una sorta di chepì anch’esso di panno.

Le truppe italiane andavano ai primi assalti in formazioni molto fitte, e gli austriaci affermavano che tirare sugli italiani era più facile che tirare al bersaglio. Durante la guerra di Libia i reparti avevano imparato a diradarsi, ma nell’estate del ’15 tale esperienza venne dimenticata. A questo proposito il generale Pettorelli-Lalatta, in data 27 agosto, scriveva: «E qui lanciamo ancora le fanterie all’assalto… a bandiera spiegata, ammassate, con musica».

Secondo le disposizioni del comandante supremo Luigi Cadorna, contenute nella circolare del 1915, intitolata “Attacco frontale ed ammaestramento tattico”(che, essendo stata ampiamente diffusa, era certamente nota anche al nemico), ogni azione della fanteria doveva essere preparata da tiri delle artiglierie capaci di spianare la via e di spazzare “coll’impeto e la massa del suo fuoco, ogni resistenza avversaria nella zona d’irruzione”. Ma nella pratica le nostre artiglierie, che erano imprecise e disponevano di un insufficiente numero di bocche di fuoco e di scarse munizioni, iniziavano il bombardamento sulle posizioni avversarie, del quale il principale effetto era quello di porre il nemico in stato di allarme, poiché raramente venivano colpiti i reticolati e le trincee nemici. Quando terminava il bombardamento i fanti uscivano allo scoperto e trovavano i reticolati nemici intatti, e le mitragliatrici pronte a falciarli. Se poi il bombardamento aveva operato un varco nei reticolati (e creato dunque un passaggio obbligato), il compito dei tiratori austriaci era addirittura facilitato.

Il generale Cadorna, pienamente cosciente dell’impreparazione e dell’insufficiente equipaggiamento delle truppe, non perdeva occasione per chiedere al Governo di colmare le lacune che si andavano riscontrando. In particolare insisteva nel chiedere munizioni e cannoni, pretendendo anche che questi fossero funzionanti, in quanto ben ventidue obici erano esplosi per difetti “nelle bocche di fuoco e negli esplosivi”.

Egli era convinto che le forbici taglia-fili potessero efficacemente servire ad aprire varchi nei reticolati nemici, perciò rimproverava il ministero di avergliele concesse “solo dopo lunghi stenti e pressanti insistenze”, ma esse non servirono a niente.

La probabilità che a causa dell’impreparazione il Regio Esercito andasse incontro ad un insuccesso nei primi scontri col nemico aveva anche indotto il Comandante Supremo a chiedere, il 17 giugno 1915, al Presidente del Consiglio Salandra d’intervenire sugli alleati perché iniziassero anch’essi un offensiva “contemporanea” al fine di mettere in crisi gli Austriaci. Ma poi rompendo gl’indugi ordinò l’attacco. Ebbe cosi inizio la prima battaglia dell’Isonzo (23 giugno – 7 luglio), destinata al fallimento. Anche la seconda battaglia dell’Isonzo (18 luglio – 4 agosto) venne da Cadorna disposta senza la necessaria preparazione, ma immediatamente soltanto perché a causa dell’insuccesso della prima egli “sentiva salire la marea di malcontento” in tutti i settori dell’opinione pubblica.

Quando anche la seconda battaglia si concluse con elevate perdite e guadagni assai modesti, il Comandante supremo informò Salandra che non avrebbe più ripreso l’offensiva fino a che non gli fossero stati forniti complementi, munizioni e rifornimenti in misura tale “da evitare per l’avvenire la grave crisi odierna”.

Così successivamente per oltre due mesi l’esercito rimase sostanzialmente fermo. Il 18 ottobre Cadorna, sia perché i mezzi tanto insistentemente richiesti gli erano in parte pervenuti, sia in quanto voleva assolutamente conseguire un successo prima della fine dell’anno per non sfigurare di fronte degli alleati nonché di fronte agli stessi italiani, decise di dare inizio alla terza battaglia dell’Isonzo, che terminò il 4 novembre, seguita a meno di una settimana dalla quarta (10 nov. – 2 dicembre).

Le suddette quattro battaglie comportarono la perdita di 183mila uomini, di cui 62mila i morti, ma i risultati furono molto modesti. Quindi svaniva l’illusione della ‘guerra breve’ ed una profonda crisi morale sopravvenne nel corso delle offensive d’autunno, quando la pioggia, il fango, le sofferenze patite intristivano gli uomini e mutavano il volto della guerra.

Gli assalti si ripetevano con esasperante monotonia e sempre contro le medesime posizioni. A tal proposito scriverà in seguito Curzio Malaparte: «… A un tratto, tranquillamente, la fanteria usciva dalle trincee e s’incamminava trotterellando verso le mitragliatrici austriache, con un vocio confuso che nulla aveva di eroico. Gli uomini (o) cadevano a gruppi uno sull’altro…(oppure), senza un lamento, andavano a stendere le proprie carcasse sui fili di ferro spinato, come cenci ad asciugare».

Nel 1915 coloro che avevano immaginato rapide e vistose conquiste, potettero ricevere dal fronte notizie assai vaghe. Infatti i giornalisti non erano ammessi nelle zone di guerra, in tutto il Paese vigeva la censura e ben poco si poteva ricavare dalla lettura dei bollettini ufficiali, i quali peraltro finirono solo col suscitare allarmi e preoccupazioni in quanto, mentre all’inizio fornivano quotidianamente le cifre delle perdite subite dai reparti combattenti o da questi inflitte al nemico, avevano poi improvvisamente cessato di farlo.

Essendo anche le lettere dei combattenti rigorosamente censurate, il Paese cominciò ad intuire la cruda realtà del conflitto dai racconti dei feriti ricoverati nelle retrovie o in convalescenza nelle proprie case, nonché dai soldati in licenza.

Tuttavia non mancò la vigilanza anche su detti militari e alcuni furono anche puniti e fatti rientrare nei reparti, mentre per volere di Cadorna veniva ridotta al minimo la concessione di licenze.

La crisi della guerra cronica, nata sul fiume Isonzo, era presto rimbalzata nel Paese procurando lutti e sofferenze inaudite, di fronte ai quali molto grave fu il disagio degli interventisti, perché più doloroso era in loro il crollo delle illusioni, più grande il peso delle responsabilità. A tal proposito scriverà poi A. Omodeo: «Lo smarrimento morale della guerra cronica fu la prova più amara per l’esercito. Falliva ciò per cui si era sognata la guerra: la rapidità tagliente delle risoluzioni.»

Gli interventisti che erano sotto le armi cominciarono ad essere trattati con odio e disprezzo dai commilitoni. Chi era partito volontario cercava di mantenere questo fatto assolutamente segreto.
Il 1° novembre 1915 B. Mussolini era al fronte e un soldato, incontrandolo, gli chiese: “Sei tu Mussolini?” “Si.” “Benone, ho una notizia da darti: hanno ammazzato Corridoni. Gli sta bene, ci ho gusto. Crepino tutti questi interventisti.”
Il monaco barnabita padre Giovanni Semeria, cappellano militare, essendo stato un appassionato interventista, al cospetto degli orrori della “provò l’angoscia smarrita di aver tradito la sua vocazione sacerdotale”; internato in una casa di cura svizzera, pensava addirittura di togliersi la vita, “credendosi colpevole della morte di giovani, di padri di famiglia, che alcuni suoi incitamenti potevano aver spinto alla guerra”.
Cadorna chiedeva al Governo il massimo sforzo finanziario per ottenere gli uomini e i mezzi necessari per riprendere nella primavera del ’16 la lotta con maggiori probabilità di successo. Ma la situazione finanziaria dello Stato era drammatica e preoccupava seriamente il Capo del Governo, che il 18 settembre 1915 convocò i Ministri sia per informarli che le richieste del Comando supremo comportavano una spesa di 15 miliardi di lire, sia per porre loro la domanda: “Dove trovare tanto denaro?”
L’interrogativo rimase senza risposta e i ministri deliberarono molto genericamente che ognuno ci avrebbe pensato e poi proposto un programma di economie.
La guerra, dunque, era ormai entrata in una fase per molti versi incomprensibile, irrazionale, che lasciava senza risposta scottanti interrogativi.
I primi sei mesi della stessa avevano cancellato i trascorsi entusiasmi al punto che nel «…funereo autunno del 1915 […] le radiose giornate di maggio erano diventate il più fastidioso dei ricordi e il solo nominarle assumeva il sapore amaro del sarcasmo…» (V. Rino Alessi, DALL’ISONZO AL PIAVE – A. Mondadori Editore 1966, pag. 13).



L’adattamento del soldato alla guerra
Le truppe si adattarono presto alla nuova guerra, tanto diversa da quelle del passato. In particolare anche l’adattamento consistente nell’accettazione di un conflitto di lunga durata che non era certo facile, fu reso possibile dal fatto che i soldati continuarono a credere nella brevità della guerra. Infatti alla fine del 1915 previdero la pace per la primavera del 1916, in primavera la attesero per l’autunno, in autunno per la primavera successiva, e così di seguito. Finché, nell’autunno del 1918 furono in molti ad ingannarsi, pensando che la pace sarebbe giunta nella primavera del 1919. Per esempio, il giornalista Ugo Ojetti, addetto presso il Comando supremo alla tutela degli oggetti d’arte e dei monumenti delle zone di guerra, il 25 ottobre 1918 scrisse alla propria moglie: “Comincio a credere che la guerra durerà fino a primavera”.

I soldati, che nelle prime settimane del conflitto non sapevano scavare nel terreno luoghi in cui ripararsi dal fuoco nemico, impararono presto a costruire complessi sistemi di camminamenti e trincee, nei quali si poteva vivere sia pure nel fango e nella sporcizia, sia sotto tiro dei fucili che sotto il bombardamento dei cannoni austriaci.
Inoltre si adattarono a trascorrere settimane o addirittura mesi a breve distanza dal nemico, in quanto riuscivano a vivere la vita di trincea come se si trattasse di un’esistenza “normale”, priva di eccessive tensioni od emozioni.

D’altronde abitualmente il vivere in trincea, mentre di notte era movimentato, di giorno era tranquillo. Infatti di notte i soldati o uscivano di pattuglia o dovevano restare all’erta per evitare sorprese. Invece di giorno: non c’era sveglia, e chi voleva poteva continuare a dormire, poiché c’era tanto poco da fare che la distribuzione dei viveri costituiva quasi sempre l’unico avvenimento della giornata.
Tuttavia il trascorrere nell’ozio intere giornate finiva col logorare psicologicamente gli stessi soldati, procurando loro una “forte depressione dei poteri volitivi, estrinsecantesi con incuria nella persona, con l’apatia più spiccata anche per quanto può concorrere al proprio benessere, e con un torpore intellettuale” (V. Relazione del gen. Luigi Capello del gennaio 1916).

I combattenti istruiti e colti soffrivano più degli altri a causa di questa decadenza intellettuale. A tal proposito in una lettera del gennaio 1916 Giacomo Morpurgo scriveva: “Davvero che i nostri cervelli si impigriscono nell’esercizio unico e limitato del compito giornaliero, sempre uguale, e sempre terra terra».
Neppure le azioni difensive o offensive scuotevano il soldato dall’apatia e dal fatalismo nei quali era immerso. Anzi, secondo lo psicologo Agostino Gemelli, “L’insensibilità affettiva, l’apatia sentimentale crescevano durante le azioni. …”. Apatia e fatalismo si manifestavano soprattutto durante i bombardamenti austriaci, quando non restava che attendere, nella più assoluta e passiva immobilità, il cessare del fuoco nemico.

Lo spirito delle truppe era già definitivamente mutato alla fine 1915. Infatti era ormai scomparso lo spirito garibaldino e la guerra sembrava ai combattenti non troppo diversa da un lavoro da portare a termine, o da una calamità naturale che necessariamente bisognava accettare.
Distacco, spersonalizzazione e fatalismo caratterizzavano tutti i comportamenti del veterano, il quale ormai sapeva adattarsi alle circostanze. Se egli non si offriva più volontario ad azioni pericolose, era perché non voleva forzare il destino o perché aveva sperimentato l’inutilità di tanti gesti eroici compiuti perfino durante azioni insignificanti.
L’ideale di patria esercitava scarsa o addirittura nessuna influenza sul comportamento della grande massa dei combattenti e specialmente dei numerosissimi fanti-contadini. A tal proposito scriveva padre A. Gemelli: “Parlare di patria a … questi uomini semplici non ha alcun significato. Si tratta di uomini umili, che non hanno certo coscienza nazionale […] Il soldato pensa a sé, alla sua famiglia, alla sua casa; non va oltre la linea dei suoi interessi […] E’ un uomo.”

Di conseguenza gli accenti epici molto di rado comparivano nelle canzoni, spontaneamente sorte e rapidamente diffusesi fra i combattenti. In esse quasi mai si nominava l’Italia, invece quasi sempre si esprimevano affetti familiari ed amorosi: in altri termini i sentimenti dell’uomo prevalevano su quelli del cittadino.
Fra i soldati erano, però, molto diffuse strofette e canzoni “proibite”, che nominavano la patria, il re o Cadorna, ma per schernirli o per ingiuriarli.
Gli obiettivi territoriali della guerra, riassunti nel binomio “Trento e Trieste”, erano forse gli unici che tutti i soldati potevano comprendere facilmente. Tuttavia gli stessi non potevano avere un significato patriottico per i contadini, che rappresentavano circa metà dell’esercito e quasi tutti appartenevano alla fanteria, la più sacrificata di tutte le armi, destinata da sola a subire il 95% delle perdite e, perciò, alla fine del conflitto, gli orfani di contadini erano 218.000 (63%), su un totale di 345mila orfani di guerra. La classe più contraria alla guerra offrì, dunque, alla patria il maggior contributo di sangue.

I fanti-contadini interpretavano la conquista del Trentino e della Venezia Giulia alla luce delle loro esperienze dirette, cioè come presa di possesso di territori da arare e da seminare. A tal proposito Arrigo Serpieri, economista agrario, ha scritto: “I contadini della grassa Romagna strabiliavano nel vedere la magra rossiccia fanghiglia carsica e domandavano agli ufficiali se valeva la pena di scatenare quell’ira di Dio per conquistare quella terra da pipe”.

Dopo il 1915 gli ufficiali si trovarono in una condizione di spirito molto somigliante a quella dei loro subordinati. Sotto molti punti di vista, anzi, l’adattamento degli ufficiali risultò più difficile di quello dei soldati. Infatti gli ufficiali potevano distinguersi dai semplici soldati per una maggiore sensibilità ai valori patriottici, per l’istruzione e l’educazione ricevute, per le maggiori responsabilità dovute alla funzione di comando, per i privilegi conferiti dal grado. Ma nelle prime linee la guerra parificava tutti i combattenti, senza fare distinzioni tra comandanti e comandati. Infatti in trincea l’ufficiale non correva rischi minori di quelli dei suoi soldati, e durante le azioni ne affrontava forse di più grandi, poiché usciva sempre con gli altri allo scoperto, spesso esponendosi davanti a tutti per dare esempio di coraggio.

La maggiore sensibilità ai valori patriottici procurava agli ufficiali una maggiore pena nel vedere deluse le attese della vigilia. Perciò nello svolgersi della dura esperienza quotidiana anche il loro sentimento patriottico si affievoliva.
Le maggiori responsabilità dovute alla funzione di comando talvolta portavano l’ufficiale ad avere invidia dei propri subordinati. Sentimento questo che Paolo Marconi, giovane ufficiale alpino, espresse in una sua lettera del febbraio 1916, scrivendo fra l’altro: “… I soldati…se ne stanno lunghe ore tranquilli a contemplare il cielo e la terra, maestosamente. … Noi no! Noi dobbiamo vigilare, tutto osservare, a tutto badare. Spesso manifestare severità e rigidezza che in realtà non abbiamo. E di fronte all’incubo delle cose esterne … si fanno aride le fonti della vita interiore”.
Nella prolungata vita trincea proprio queste cogenti responsabilità spesso determinavano in alcuni seri disturbi di natura psicologica.
Il direttore di sanità del VI Corpo d’armata, Gerundo, essendo stato interpellato a tal proposito dal gen. Luigi Capello, il 7 gennaio 1916 scriveva: “Da qualche tempo si notano frequenti casi di esaurimento nervoso specialmente negli ufficiali, che si presentano la maggior parte sotto una forma depressiva ed in alcuni casi, fortunatamente rari, sotto forma eccitatoria (sic). Mentre i primi si presentano in genere apatici, indolenti, ipobulici, attoniti, gli altri si presentano con fenomeni alterni di eccitabilità e di depressione. […]”.
Nel corso del conflitto la questione che più di ogni altra agitò l’animo dei combattenti fu quella degli “imboscati”, cioè di tutti coloro che si sottraevano al servizio di guerra e restavano lontano dal fronte. Tuttavia, essendo tale questione molto sentita, il termine “imboscato” finì con l’assumere svariati significati. Per esempio: chi stava in una trincea particolarmente esposta considerava imboscati coloro che occupavano una posizione meno pericolosa; coloro che combattevano sul fronte dell’Isonzo giudicavano imboscati i fanti delle armate schierate tra lo Stelvio e la Carnia, che chiamavano “armate della salute”; per i fanti erano imboscati gli artiglieri; e per l’intero esercito erano imboscati tutti coloro che non si trovavano in zona di guerra.
Comunque il problema dell’imboscamento veniva avvertito dai soldati in forma sempre più acuta, perché continuamente ne venivano alla luce casi clamorosi come i seguenti:
  • lontano dal fronte prestarono sempre servizio i tre figli del presidente del Consiglio Antonio Salandra, il quale a suo tempo aveva solennemente dichiarato che gli stessi sarebbero andati in prima linea;
  • il sottotenente Edoardo Agnelli, proprietario della FIAT, prestava servizio presso il Comando supremo in qualità di vice-direttore del parco automobilistico, alle dipendenze di un capitano che nella vita civile dirigeva il garage FIAT di Milano. 
A partire dall’ottobre 1915 il Governo istituì un’imposta sulle esenzioni dal servizio militare dell’importo annuo di lire sei (subito battezzata dai soldati “tassa sugli imboscati”), alla quale erano assoggettati sia i riformati che gli esonerati. Questi ultimi costituivano una categoria molto numerosa, poiché vi facevano parte gli addetti a vari uffici e servizi nonché gli operai di industrie in qualsiasi modo impegnate in produzioni utili alla guerra. Inoltre gli operai richiamati raramente erano assegnati alla fanteria poiché, se conoscevano anche superficialmente un motore o sapevano maneggiare un attrezzo, venivano avviati ad altri corpi speciali. Questo convinse il fante-contadino che dire operaio equivaleva dire imboscato, cioè nascosto in qualche corpo speciale o semplicemente rimasto in città a lavorare guadagnando bene.

I fanti-contadini, che non avevano certo voluto la guerra, vivevano, dunque, nella consapevolezza che soltanto per loro non esistevano alternative alla lotta in prima linea, come peraltro riconobbero alcuni autorevoli uomini politici: “La guerra la fanno i contadini!” gridò alla Camera l’on. Soderini. “La pagano col loro sangue in proporzione del 75 per cento”, confermò l’on. G. Ferri.

                                   

Contrasti e crisi del primo semestre 1916
Nel 1916 fra politici e militari divenne sempre più aspra la contesa su “chi” dovesse guidare la guerra che, invece, continuò a procedere quasi per suo conto, perversa e indomabile, ribelle ad ogni regola che le si sarebbe voluta imporre.
A tal proposito il generale Antonino Di Giorgio nel 1919 ammise: “La verità è che nessuno governò l’Italia in guerra”.
In passato i politici si erano quasi sempre disinteressati dell’esercito, mentre i militari avevano impedito al Parlamento di ingerirsi nei loro affari. Tuttavia non erano mancate del tutto le interferenze fra i due mondi. Infatti i ministri della Guerra e della Marina dibattevano i problemi dei loro dicasteri in seno al Consiglio dei ministri e, come tutti i membri dell’esecutivo, erano soggetti al controllo del Parlamento; il Governo utilizzava di continuo le truppe per garantire l’ordine pubblico. Nonostante questo, i due mondi continuavano a restare estranei l’uno all’altro, animati da reciproca diffidenza. Per esempio: mentre il generale Emilio De Bono, descrivendo la vita degli ufficiali nell’anteguerra, affermava che nessuno di essi si occupava di politica, l’on. F. Marazzi testimoniava che prima del conflitto era stato “quasi un vanto civico far pompa d’ignoranza di ogni nozione militare”.

Le operazioni militari, che nel 1915 si erano concluse con un bilancio del tutto insoddisfacente, e le notizie diffuse nel Paese dai militari feriti o in licenza destavano allarmi e apprensioni non solo ai comuni cittadini, ma anche ai parlamentari. Fra i tanti l’on. Giampietro, che era ufficiale dell’esercito, denunciava un vero e proprio spreco di denaro pubblico causato da un piano strategico e da un’azione sbagliati, mentre il giornalista Gaetano Salvemini, tornato dal fronte, affermava che il tentare e ritentare sempre la stessa impresa, senza che questa riuscisse, aveva depresso lo spirito dei soldati.

Il 26 gennaio 1916 in una riunione del Governo Salandra il gen. Vittorio Italico Zupelli, responsabile del dicastero della guerra, nell’intento di dare fiducia a quei suoi colleghi che dicevano di non capire nulla di tattica e di strategia, presentò un memoriale nel quale affermava fra l’altro che il gen. Luigi Cadorna avrebbe dovuto:
  • evitare di disperdere tutta le forze disponibili sull’intero fronte e concentrarle, invece, sul Carso dove il nemico era più vulnerabile; 
  • non sospendere le ostilità in inverno, poiché proprio in tale stagione sarebbe stato possibile impadronirsi del Carso e precludere al nemico le vie per Trieste.
Secondo Zupelli bisognava, perciò, riunire immediatamente su un breve fronte di 12 km almeno 500 delle 770 bocche di fuoco possedute ed riprendere le operazioni offensive entro il mese di febbraio, cioè nel giro di pochi giorni.
Dopo Zupelli, prese la parola il ministro Sidney Sonnino, il quale dichiarò che le sorti della guerra le doveva decidere il “Consiglio di difesa”, ma che, essendo questo un organismo operante solo in periodo di pace, si era nell’impossibilità di convocarlo.
Pertanto il presidente Salandra ritenne opportuno scrivere il 30 gennaio una lettera al Re per informarlo del disagio dell’intero Governo per quanto stava accadendo.
Il Consiglio dei ministri tornò a d occuparsi della questione il 6 febbraio, decidendo di inviare Zupelli al fronte, perché esponesse il proprio piano a Cadorna.
Il ministro della guerra partì e tornò soddisfatto, perché il Comandante supremo aveva accolto i concetti base del piano formulato nel suddetto memoriale in modo diverso da come ci si potesse aspettare.
Però col passar del tempo i concetti espressi in detto memoriale, peraltro già non ritenuti validi dal Re, cominciarono a sembrare fantastici ed assurdi agli stessi ministri che in un primo momento li avevano approvati.
Intanto il Comandante supremo, che ben sapeva di avere molti avversari, messo sul chi vive dal memoriale Zupelli e dalle voci in giro di una sua imminente sostituzione, decise di passare al contrattacco avverso i “nemici che erano a Roma”. Infatti chiese il sostegno del giornalista Ugo Ojetti, il quale, oltre a farlo subito intervistare in un posto avanzato da un giornalista del quotidiano «Idea Nazionale», gli assicurò sulla stampa italiana di febbraio tutta una serie di articoli laudativi del suo operato. Perciò Cadorna il 29 febbraio ringraziò Ojetti, dimostrandosi contento che il Comando supremo fosse stato considerato superiore alle critiche degli ignoranti e degli sfaccendati. Chiara allusione questa agli uomini politici.
Però lo stesso Cadorna, dopo l’esaltante campagna giornalistica in suo favore, poté finalmente dare sfogo al proprio risentimento verso Zupelli, imponendo a Salandra la destituzione del ministro della guerra: o via lui, scrisse, o via io.
Il presidente del Consiglio rispose di non poter subire imposizioni, precisando altresì che secondo lo Statuto del Regno d’Italia solo al sovrano spettava la nomina e la revoca dei ministri.
Due giorni dopo Cadorna replicò al Capo del governo con la presentazione delle proprie dimissioni da Comandante supremo.
Salandra reagì rimettendo l’intera questione nelle mani del Re, cioè dichiarando fra l’altro: “Con perfetta tranquillità di spirito ritengo però che in questo momento sia nell’intesse del Paese minor danno cambiare il ministro che non cambiare il capo di stato maggiore, perciò rassegno le mie dimissioni e resto in attesa degli ordini di Vostra Maestà”.
Il Re ribadì il principio che la richiesta di allontanare Zupelli non era corretta dal punto di vista costituzionale. Cadorna rinunciò allora sia alla sua richiesta sia al suo proposito di dimettersi. Anche Salandra non parlò più di lasciare il Governo.
Alla fine, dunque, se nella forma l’ebbe vinta il presidente del Consiglio, nella sostanza fu il comandate supremo a prevalere, anche perché il 9 marzo Zupelli, adducendo come motivo il clamore suscitato da una campagna giornalistica in corso, si dimise. A questo proposito Salandra scrisse poi al Re di ritenere che il ministro della guerra non a torto vedeva nella la campagna giornalistica contro di lui l’ispirazione dello Stato Maggiore.
Fu quindi nominato ministro della guerra il generale Paolo Morrone, in base a una scelta fatta non da Salandra, ma dallo stesso Cadorna. Circostanza questa peraltro confermata dal ministro delle Poste Vincenzo Riccio, il quale scrisse che il Morrone era in seno al Consiglio dei ministri la longa manus del gen. Cadorna, i cui ordini eseguiva “con poco ingegno e molta scrupolosità”. Il Consiglio dei ministri si adattò al nuovo modus vivendi e per un certo tempo non pose più in discussione l’operato del Comando supremo
Tutto questo è la dimostrazione inequivocabile che nel 1916 in Italia il Comando supremo dell’Esercito contava molto più del Governo dello Stato.
Il 15 maggio, improvvisamente, le truppe austro-ungariche, iniziarono nel Trentino, fra i fiumi Adige e Brenta la strafexpedition (= spedizione punitiva) contro l’Italia che aveva tradito la Triplice Alleanza, di cui faceva parte insieme a Germania e Austria. Sin dagli ultimi giorni di marzo erano stati avvertiti dai reparti italiani i sintomi di una possibile offensiva austriaca, ma non era stata messa in atto nessuna misura preventiva in quanto Cadorna diceva di non creder che i nemici volessero impegnarsi nel Trentino. E il 15 maggio, quando gli austriaci avevano già sfondato le linee italiane, i ministri, che ancora non lo sapevano, dopo una riunione del Consiglio, erano rimasti a discorrere della guerra, in quanto erano preoccupati che dal punto di vista militare l’Italia si stesse facendo molto poco.
Ma quando giunsero le prime gravissime notizie dal fronte lo sgomento fu generale.
La strafexpedition aveva portato la guerra in casa: gli austriaci avanzavano in territorio italiano e non si sapeva ancora dove sarebbe stato possibile arrestarli. Pertanto il 24 maggio, 1° anniversario della dichiarazione di guerra, ci fu un’agitatissima riunione del Consiglio dei ministri, durante la quale Barzilai e Martini dichiararono che la loro fiducia in Cadorna era scossa, mentre Sonnino disse addirittura di essere seriamente preoccupato che le sorti d’Italia fossero affidate ad una sola persona, la quale neppure dava conto del suo operato e, perciò, propose la convocazione di un convegno tra Cadorna, i Comandanti di armate, il Capo del governo e cinque ministri.
Tale proposta venne approvata dal Consiglio, ma il Comandante supremo il 25 maggio telegraficamente comunicò il proprio rifiuto di aderirvi, adducendo una articolata motivazione la quale si concludeva con l’affermazione che egli, fino a quando avesse avuto l’onore di godere della fiducia del Re e del Governo, si sarebbe assunte tutte le responsabilità, altrimenti avrebbe pregato di essere sostituito con la massima urgenza. Comunque si dichiarava disposto a fornire tutte le informazioni desiderate.
A questo punto i ministri, non sapendo cosa fare, inviarono in zona di guerra per raccogliere informazioni il solo gen. Morrone. Questi, dopo quattro giorni, tornando dal fronte portò al Consiglio il rapporto di Cadorna, costituito di un sola paginetta!
In questa, però, era fra l’altro scritto che, a causa della minacciata invasione austriaca dalla parte della Val Lagarina, poteva diventare necessaria la nostra ritirata dall’Isonzo al Piave.
La lettura di detto rapporto provocò una vera insurrezione dei ministri presenti. E, mentre V. E. Orlando dichiarava che una ritirata fino al Piave avrebbe significato la capitolazione e la guerra perduta, Sonnino affermava che Cadorna aveva tradito il Paese e bisognava porre il dilemma: “O lui, o noi”. Anche Martini, Barzilai e Riccio sostenevano che fosse necessaria la sostituzione del Capo di stato maggiore, che fu quindi proposta al Re. Questi non sollevò obiezioni, ma dichiarò esplicitamente che l’iniziativa doveva essere assunta dal Governo. Ma il presidente Salandra, cercando di non affrontare subito il problema, convinse il Consiglio a deliberare di lasciare Cadorna al suo posto, tenendo pronto un successore. Quindi tutto restò come prima e non si riuscì neppure a convincere il Comandante supremo ad informare preventivamente il governo di una eventuale ritirata dall’Isonzo al Piave.
Questa impotenza, dimostrata nella direzione delle vicende militari, contribuì alle dimissioni del presidente Salandra (18 giugno 1916), ormai inevitabili in quanto al suo scarso impegno nella condotta della guerra (peraltro dichiarata contro la sola Austria) erano addebitati i gravi insuccessi sui campi di battaglia.
Dopo la caduta di Salandra la classe politica italiana non fu in grado di esprimere una reale alternativa di governo. Venne, infatti, costituito un governo di unità nazionale, presieduto da un uomo politico di scarso rilievo e di ancor più scarsa autorità, qual era l’anziano patriota Paolo Boselli. Questi secondo il senatore L. Albertini era “uomo che nel discutere scivolava via senza che si riuscisse ad afferrarne il pensiero, perché non aveva un pensiero ben definito e preferiva trarre norma nelle sue decisioni dall’ambiente e dalle circostanze”.
Proprio traendo norma dall’ambiente e dalle circostanze e vedendo che l’offensiva nemica sull’Altopiano di Asiago era stata fermata, il neo Capo del Governo ritenne opportuno inviare un telegrafico e fidente saluto “all’insigne capitano” che guidava “i soldati d’Italia alla vittoria”.
Ma di queste parole furono scontenti tanto Cadorna e i cadorniani quanto gli anticadorniani. I primi perché giudicavano le stesse troppo caute e, quindi, non rappresentanti un vero encomio. I secondi perché rimproveravano al nuovo Governo di avere in tal modo impegnato, senza un preventivo esame, la propria libertà di giudizio in ordine al problema di un eventuale esonero del Comandante supremo. Problema questo che si era seriamente posto il Ministero precedente.
Nei primi giorni di attività governativa Boselli chiese al Capo di stato maggiore una relazione sulle ultime operazioni militari da leggersi in parlamento. La ebbe, ma non se ne valse. Cadorna si offese, tanto più perché venne a sapere che il presidente del Consiglio abitualmente parlava male di lui.
La contesa tra militari e politici sulla conduzione della guerra, che tendeva a inasprirsi all’inizio del 1916, non era stata, quindi, neppure mitigata, intorno alla metà di giugno in virtù dell’azione generosa anche se non sempre appropriata di alcuni uomini di governo, ed in particolare del ministro Zupelli.
Ma alla fine del 1° semestre, cioè dopo l’uscita di scena del Governo Salandra (17 giugno), mentre la guida dell’Esercito era ben salda nelle mani di Luigi Cadorna le condizioni politiche del Paese subirono un imprevisto e grave peggioramento. Infatti il Governo Boselli “Era il ministero della debolezza che simulava la forza”, come disse F. S. Nitti. Era un Governo di Unità Nazionale, cioè di tutti i partiti e rischiava l’inefficienza e la paralisi nell’azione. Inoltre era guidato da un politico compiacente e benevolo con tutti e ormai al termine della sua carriera politica.
Il Ministero Salandra aveva avuto dodici ministri. Invece quello di Boselli ne contava venti, di cui solo tre [V. E. Orlando (interni), P. Morrone (guerra), S. Sonnino (esteri)] con l’esperienza governativa che mancava agli altri diciassette. Infine questi ultimi, essendo diversi fra loro per formazione ed idee, difficilmente avrebbero potuto assicurare quell’azione decisa ed efficiente necessaria al Paese in guerra.
                                                                                                
 Contrasti tra politici e militari alla fine del 1916 - Soldati e ufficiali nella guerra «cronica»
Del Governo di Unità Nazionale, formato da Paolo Boselli nel giugno1916, faceva parte come ministro senza portafoglio, ma che ufficiosamente aveva l’incarico di creare un collegamento tra l’esecutivo e il Comando Supremo, Leonida Bissolati. Questi, avendo grande autorità e prestigio, avrebbe dovuto incarnare le speranze degli italiani, in quanto coerente con le sue idee di acceso interventista: allo scoppio della guerra si era arruolato volontario a 54 anni e, partecipando eroicamente ai combattimenti sul Monte Nero (1915) e sull’Altopiano di Asiago (1916), aveva meritato due medaglie d’argento.
Dopo la nomina a ministro Bissolati fece ritorno in zona di guerra per parlare col Re, con Cadorna e con Porro della necessità di promuovere un’inchiesta sugli avvenimenti relativi alla strafexpedition. Questo suo intervento suscitò la diffidenza generale e soprattutto urtò la suscettibilità del Comandante Supremo, il quale con una lettera del 7 agosto comunicò seccamente al presidente del Consiglio che egli non riconosceva a Bissolati la funzione d’intermediario e che le relazioni tra il Governo e lo Stato Maggiore dell’Esercito dovevano esser tenute solamente dal ministro della Guerra.
Boselli, da quel debole che era, rispose dichiarandone il proprio totale ed incondizionato accordo.
Cadorna inviò, quindi, ai comandi dell’Esercito un ordine col quale vietava a qualunque ministro di entrare in zona di guerra senza il suo preventivo assenso. Egli, peraltro, temeva che Bissolati volesse “silurarlo” e sostituirlo col generale Luigi Capello.
Pertanto quando, in seguito alla conquista di Gorizia (9 agosto 1916), la stampa esaltava Capello, comandante del VI Corpo d’armata, considerandolo artefice della vittoria, il Comandante supremo vide nella campagna giornalistica una precisa orchestrazione contro di lui. Inoltre trapelò la notizia che tra Capello e Bissolati ci fossero “legami settari” (massonici). Perciò Cadorna ai primi di settembre tolse a Capello il comando del VI Corpo d’armata, nell’intento di punire tanto Capello quanto Bissolati.
Col passar dei giorni l’ira del Comandante Supremo crebbe ancor più, poiché Bissolati si trovò coinvolto in uno scandalo involontariamente provocato dal comandante del Servizio Aeronautico Italiano, il colonnello Giulio Douhet. Questi infatti, verso la fine di agosto, aveva redatto un memoriale anticadorniano, che cercò di far pervenire ai ministri Bissolati e Sonnino tramite l’on. Gaetano Mosca. Ma a quest’ultimo fu sottratto in treno il compromettente plico che giunse proprio nelle mani di Cadorna. Douhet fu quindi denunciato al tribunale militare che lo condannò ad un anno di reclusione. Durante il processo l’accusa, secondo Bissolati, non era riuscita a provare l’esistenza di alcuna “congiura” contro il Comandante Supremo. Tuttavia la tensione salì alle stelle, perciò il presidente del Consiglio Boselli si recò personalmente in zona di guerra, recando con sé una lettera, che Bissolati mandava a Cadorna per significare di non aver mai voluto creare imbarazzi, ordire insidie o fomentare l’indisciplina contro il Comando Supremo.
Lo stesso Boselli, facendo appello al patriottismo, disse che, se Bissolati non fosse stato ricevuto in detto Comando, tutto il Governo avrebbe dovuto dimettersi.
Il Comandante Supremo dapprima ribadì il suo rifiuto, ma dopo 15 giorni, grazie anche all’intervento del Re, acconsentì a ricevere il ministro Bissolati, anche se in realtà continuò a porre limiti severissimi alle attività dello stesso in zona di guerra.
Tuttavia in seguito i rapporti tra Cadorna e Bissolati divennero quasi amichevoli. Il miglioramento, iniziato con i ringraziamenti del primo al secondo per le prudenti ed accondiscendenti dichiarazioni fatte alla Camera in merito al caso Douhet, fu consolidato da una sostanziale coincidenza di opinioni su vari problemi della guerra. C’è stato, però, chi non a torto ha sostenuto che il segreto della rappacificazione fra i due fosse la sottomissione di Bissolati a Cadorna. Quest’ultimo, quindi, aveva ancora una volta dimostrato di possedere un’energia ben diversa da quella della maggioranza dei politici del suo tempo.
L’Esercito italiano si oppose validamente alla strafexspedition austro-ungarica e, nel corso dei combattimenti avvenuti tra maggio e giugno 1916, perdette circa 113mila uomini tra morti e feriti. Tuttavia lo stato d’animo delle truppe non era stato uniforme sull’intero fronte. Infatti, mentre le ali dello schieramento si erano mantenute abbastanza salde, al centro le truppe avevano mollato. Perciò un generale uccise 8 soldati che fuggivano e ordinò di fucilare chiunque avesse mollato.
Il 21 maggio, quando ci fu lo sfondamento delle linee italiane, Cadorna, avendo constatato che alcuni reparti avevano abbandonato posizioni di capitale importanza senza nemmeno cercare di difenderle, affermò in presenza dei piantoni che bisognava fucilare “senza processo” e che egli se ne assumeva la responsabilità. Un esplicito ordine in tal senso venne poi impartito il giorno 26 con lettera del Comando Supremo, stampata e distribuita a tutti i comandi.
Solo due giorni dopo, cioè il 28 maggio, un sottotenente, tre sergenti e otto soldati del 141° reggimento di fanteria messo in fuga dagli austriaci, furono fucilati per ordine del colonnello comandante, che ricevette un solenne encomio da Cadorna.
Questo fu il primo caso di decimazione avvenuto nel Regio Esercito italiano.
Il seguente 11 giugno fu destituito il comandante del XIV Corpo d’Armata per non aver adottato mezzi subitanei di repressione nei riguardi di reparti “andati a rifascio in brevissimo tempo senza combattere”, dei quali aveva però deferito alcuni ufficiali alla corte marziale. Fu quindi ribadito l’ordine di fucilare sul posto sia i soldati che gli ufficiali, poiché si sapeva che i tribunali erano restii ad emettere condanne a morte.
Ai primi di luglio l’89° reggimento della brigata Salerno, dopo 10 mesi trascorsi in uno dei più disagiati settori del fronte, era stato trasferito in un settore più tranquillo per un periodo di “riposo”, ma fu sorpreso dalla strafexpedition e dovette combattere. In seguito parecchi soldati, in parte feriti, erano in una località, da cui non potevano rientrare nelle linee italiane, perché sotto il tiro delle mitragliatrici nemiche. Dopo essere stati isolati e senza soccorsi per due giorni e due notti nella zona fra le opposte trincee, cioè nella terra di nessuno, tentavano di arrendersi al nemico. Perciò i comandi superiori ritennero opportuno ordinare alle artiglierie di far fuoco su di essi. Due giorni dopo il comando del corpo d’armata ordinò la decimazione tra i militari dell’89°, che comportò la fucilazione di otto militari. Nondimeno Cadorna si dichiarò convinto che la giustizia non avesse colpito ciecamente.
D’altronde il generalissimo considerava gli uomini irreggimentati nell’esercito da lui comandato “un’accolta improvvisata di grandi masse, in buona parte ineducate ai sentimenti militari, anzi educate dai partiti sovversivi ai sentimenti antimilitaristi, che un comandante non aveva il tempo di rieducare”. Tuttavia i suoi giudizi negativi coinvolgevano anche gli ufficiali, i quali avrebbero dovuto essere i naturali educatori di quelle masse. Infatti all’inizio della guerra, mentre considerava la mancanza di almeno 13.500 unità, riferendosi ai 15mila ufficiali effettivi esistenti, affermava che questi erano “abbastanza buoni in basso, ma invecchiati e sfiduciati nei gradi inferiori e medi, ed in alto – insieme a parecchi buoni ed ottimi – altri non pochi insufficienti”.
Non poteva certo essere migliore il giudizio del Comandante Supremo nei riguardi dei tanti mobilitati che erano ufficiali di complemento.
Per ovviare alla grave carenza di ufficiali fu necessario istituirne a ritmo serrato corsi di addestramento, che normalmente duravano tre mesi, ai quali erano ammessi i mobilitati che fossero in possesso della licenza di scuola secondaria superiore. Quindi i frequentanti dei corsi erano uomini anche laureati, ma soprattutto giovani, talvolta non ancora ventenni. Vennero anche istituiti i cosiddetti “corsi di corsa”, con i quali l’allievo otteneva la nomina a sottotenente in 60 (sessanta) giorni, e precisamente 40 a Modena e 20 alla Porretta, seguiti da una breve licenza; subito dopo il neo-ufficiale veniva mandato a comandare un reparto di linea.
Dall’agosto del 1914 al novembre 1918 furono molto rapidamente addestrati più di 160mila nuovi ufficiali.
Scrisse il gen. Luigi Capello: “E’ evidente che l’improvvisazione di una così gran massa dovesse andare a scapito della qualità”.
Disse Adolfo Omodeo che il più grave problema, per il giovane ufficiale di provenienza borghese, era quasi sempre costituito dal rapporto con il soldato proletario, spesso analfabeta, spesso più anziano e più maturo del suo tenente.
Senza mezzi termini Emilio De Bono spiegò come fosse facile che i neo ufficiali si trovassero in un primo tempo alla mercé dei loro subordinati.
“Siamo in mano alle criature”(cioè ai bambini) disse un fante al suo generale.
Durante e dopo la guerra gli ufficiali di complemento criticavano duramente di “carrierismo” i loro colleghi effettivi, arrivando addirittura a sostenere che spesso avessero ordinato ai reparti azioni inutili, ma dispendiose in vite umane, al fine di conseguire un avanzamento di grado. Inoltre i primi rivolgevano ai secondi anche l’accusa di “imboscati”, sostenendo che, grazie alla complicità dei superiori, gli ufficiali permanenti riuscissero ad ottenere posti più sicuri nel Paese ed al fronte. Quest’ultimo genere di accusa ha trovato conferma i varie testimonianze scritte, tra cui quella di Cesare Battisti, contenuta in una lettera alla moglie del 5 settembre ’15.
La conquista di Gorizia, avvenuta l’8 agosto 1916, pur non avendo un grande valore strategico, rianimò un poco sia l’opinione pubblica che lo spirito dei combattenti, ma tutti si avvidero rapidamente che la guerra quotidiana continuava nelle forme ormai consuete.
Intanto nel luglio 1916 gli uomini alle armi erano diventati 2.350.000, mentre un anno prima erano un milione e mezzo.
Nel settembre successivo ebbe inizio l’impiego di un nuovo tipo di artiglieria da trincea, “la bombarda”, il cui tiro – si disse – avrebbe certamente distrutto i reticolati nemici, ma la nebbia e l’umidità autunnali impedirono quasi sempre il raggiungimento di tale risultato.
Tuttavia Cadorna tra ottobre e novembre ordinò due brevi offensive, ma tanto costose in vite umane che alcuni reggimenti della III Armata si erano ribellati, subendo perciò la decimazione. Quando finalmente il generalissimo ordinò la sospensione dei combattimenti fino alla primavera del 1917, il bilancio dell’anno 1916 si rivelò doloroso: 404.500 morti e feriti, contro i 246.500 del 1915.
Come il numero delle perdite anche l’indice di autolesionismo aumentò notevolmente nel secondo anno di guerra. Infatti nel 1916 ci furono 4.133 condanne per mutilazioni volontarie o per lesioni e infermità procurate al fine di evitare il servizio militare, mentre le stesse nel 1915 erano state 1.403. Tuttavia gli autolesionisti cominciarono a diminuire alla fine del 1916: essi fino ad allora, stando in carcere se condannati, rimanevano lontani dal fronte, invece un decreto luogotenenziale dell’ottobre stabilì che anche se condannati alla reclusione dovessero essere inviati in linea.
Alla vigilia del secondo inverno di guerra molti ufficiali avvertivano l’urgente necessità di risollevare in qualche modo lo spirito delle truppe. In particolare un generale dichiarò che ai soldati avrebbe fatto più bene un’ora di divertimento, che cento grammi di pane in più.
Invece, la razione di pane fu ridotta da 750 a 600 grammi, e il 19 novembre Cadorna emanò una circolare, con la quale imponeva ad ufficiali e soldati di comportarsi in pubblico “in modo conforme alle esigenze dello stato di guerra” e, quindi, evitando distrazioni e divertimenti.
Una distrazione consentita era quella della lettura e le Case del Soldato erano abbastanza fornite di libri.
Fino al 1916 la propaganda “sovversiva e disfattista” non aveva ancora suscitato gli allarmi del Comando Supremo, il quale solo il 18 giugno di quell’anno emanò una circolare contro la diffusione di pubblicazioni antimilitariste.
Invece, relativamente alla propaganda pacifista, nell’agosto del 1916 una circolare del Ministero della Guerra vietava di far giungere alle truppe opuscoli o manifesti “tendenti a deprimerne il morale ed a fare opera contraria alle istituzioni ed alle aspirazioni nazionali”.
Grande importanza ebbe poi la circolare inviata il 4 novembre dal Ministro degli Interni, V. E. Orlando, ai Prefetti per segnalare la minaccia della propaganda che elementi “rivoluzionari” avrebbero potuto svolgere presso i soldati che giungevano in licenza invernale. Si cominciava, dunque, a temere che influenze negative del Paese potessero turbare lo stato d’animo delle truppe.
In particolare si temeva che il Partito Socialista potesse cavalcare la grande preoccupazione generale dovuta al prolungarsi indefinito della guerra e, quindi, imporre la pace e far precipitare l’Italia nel caos e nella sconfitta.
Tuttavia il ministro Orlando ostentava tranquillità e si rifiutava di adottare misure di carattere straordinario nei riguardi dei socialisti, spiegando in privato che Turati e Treves, capi del partito, stavano impedendo e frenando gli eccessi dei loro compagni più intransigenti, e che non avrebbero potuto continuare la loro attività moderatrice se il partito venisse colpito da provvedimenti eccezionali.
Invece era seriamente preoccupato per l’atteggiamento dei socialisti (che in Parlamento avevano anche presentato una mozione per chiedere la pace senza annessioni) il ministro Bissolati, al quale stesso Orlando, avendolo incontrato il 31 dicembre, precisò di avere pronti i decreti per proclamare, se necessario, lo stato d’assedio.
In effetti, però, neppure la frazione estremista del Partito socialista era disposta ad assumersi fino in fondo la responsabilità di una disfatta.
                                                                                                             

Il 1917 prima di Caporetto
Due avvenimenti sconvolgenti, quali la caduta in marzo del governo zarista russo e l’entrata in guerra (6 aprile) degli Stati Uniti d’America contro gli Imperi centrali, segnarono nei primi mesi del 1917 l’inizio di una nuova epoca storica.
Intanto l’Esercito italiano, nonostante la depressione degli animi e i contrasti tra potere politico e potere militare, poteva godere di una vera e propria tregua, poiché dai primi di novembre 1916 a metà maggio 1917 non ci furono operazioni militari di rilievo. Questo permise agli uomini in armi di ritemprare le forze, mentre le giovani reclute della classe 1897 portavano al fronte, secondo A. Omodeo, “un’ondata di freschezza”.
Invece l’esercito austro-ungarico, meno omogeneo di quello italiano in quanto costituito da soldati di varie nazionalità, era profondamente minato dall’indisciplina.
Infatti frequentemente accadeva che ufficiali romeni o cechi o boemi disertassero per informare gli italiani sulle operazioni che stava preparando il proprio esercito, nei cui baraccamenti non mancavano mai le scritte inneggianti alla pace, nonostante il costante impegno dei comandi a farle cancellare.
Anche in Germania era grave il contrasto tra il potere politico e quello militare. Contro quest’ultimo s’indirizzava, in una prima fase, il malcontento delle popolazioni. Tuttavia nell’estate del 1917 entrambi i poteri persero la fiducia di tutti gli strati sociali, nei quali si andava sempre più diffondendo il desiderio che fossero iniziate trattative di pace.
Sul fronte francese, fra l’aprile e l’ottobre 1917, circa 40mila soldati si ammutinarono, compiendo atti d’indisciplina e manifestando al canto dell’Internazionale. D’altronde tutti i francesi erano esausti per i sacrifici patiti fin dall’agosto 1914 e a Parigi soldati e scioperanti fraternizzavano, inneggiando alla rivoluzione russa e alla pace.
Allo scoppio della rivoluzione a Pietrogrado (12 marzo 1917) il giornalista Rino Alessi informava il suo direttore che gli avvenimenti di Russia non avevano “nessuna ripercussione” al fronte e che l’esercito rimaneva “calmissimo”.
In effetti i comandi superiori italiani avevano ordinato agli ufficiali di spiegare ai soldati che gli avvenimenti russi dovevano essere considerati come un vera fortuna per l’Intesa, poiché il governo rivoluzionario avrebbe certamente dato maggiore impulso alla guerra contro gli Imperi centrali.
In aprile, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, aumentò la speranza in una svolta decisiva foriera di pace.
Il fermento dovuto a questi avvenimenti internazionali si traduceva, dunque, nella speranza di una imminente fine della guerra. Ma a partire dal 12 maggio ebbe inizio la X battaglia dell’Isonzo a cui seguì l’offensiva dell’Ortigara. Il sostanziale fallimento di entrambe le operazioni produsse sullo spirito delle truppe conseguenze considerate gravi e preoccupanti dalle autorità politiche e anche da alcuni comandanti militari. Ai primi di luglio Il Vescovo di campo, mons. Bartolomasi, ritenne suo dovere recarsi a Roma per informare della situazione il capo del governo Boselli.

Il gen. Cadorna diede sì l’ordine di sospendere i combattimenti, ma concedendo solo due mesi di tregua alle truppe, che a suo avviso non avevano esaurito il loro spirito combattivo. In effetti la tregua servì alla preparazione dell’undicesima battaglia dell’Isonzo che si prevedeva più impegnativa delle precedenti in quanto l’obiettivo principale era la conquista dell’altopiano della Bainzizza. Questo preoccupava molto i politici. In particolare, il 1° agosto, l’on. Giovanni Amendola scrisse al ministro Bissolati, scongiurandolo d’intervenire affinché si rinunziasse all’offensiva, per non sottoporre le truppe ad una nuova e logorante prova.
Ma, contrariamente a quel che si pensava, i grandiosi preparativi della battaglia ebbero ripercussioni molto positive sullo stato d’ animo dei soldati, come se tutti sperassero che alla conquista della Bainzizza sarebbe seguita la pace.
L’andamento delle operazioni all’inizio fu incoraggiante, ma dopo pochi giorni fu evidente il loro fallimento: modesti furono i risultati territoriali dell’offensiva e del tutto negativi quelli strategici, dato che la nuova prima linea risultava più vulnerabile della precedente, mentre erano stati perduti circa 100mila uomini.
Ovviamente lo spirito delle truppe subì un nuovo tracollo, sempre per evidenti ragioni d’indole militare: la Bainsizza, infatti aveva dimostrato che la guerra di logoramento, mentre estenuava entrambe le parti contendenti, consentiva solo risultati locali, ma non portava all’attesa soluzione finale del conflitto.
Nel 1917 ci fu un vero e proprio scadimento disciplinare dell’Esercito italiano: aumentò il numero dei processi per reati d’indisciplina, insubordinazione e diserzione; non mancarono gli autolesionisti che diminuirono dopo il mese maggio, ma soltanto in seguito a due fucilazioni ammonitrici.
Spesso i militari in viaggio verso il fronte sparavano o lanciavano pietre dai treni, insultavano i borghesi, gli operai e i ferrovieri considerandoli imboscati, effettuavano danneggiamenti ed altri atti di protesta, accompagnati da grida inneggianti alla pace.
Dal maggio all’ottobre 1917 si contarono circa 60 processi per ammutinamento con rivolta. In genere gli atti d’indisciplina nascevano spontaneamente, si svolgevano in forma disordinata, terminavano rapidamente dopo l’intervento dei comandi, prima che le repressioni fossero poste in atto. Le manifestazioni di protesta avevano luogo soprattutto al momento di tornare in linea ed erano originate per lo più dalla mancata concessione di licenze o dal mancato rispetto dei turni di riposo.
Soltanto in un caso le truppe forse protestarono secondo un piano preordinato: fu nel luglio 1917 a S. Maria La Longa, allorché una rivolta di eccezionale gravità si verificò fra i soldati della brigata Catanzaro (141° e 142° reggimento fanteria).
Alcune settimane prima della rivolta, mentre il 142° reggimento si accingeva a ritornare in linea, si erano udite scariche di fucileria e grida di protesta, subito sedate dagli ufficiali. I carabinieri, dopo accurate indagini, il 14 luglio avevano individuato in nove militari i possibili istigatori di nuove proteste da mettere in atto in futuro. Questi furono fatti arrestare dal comando di brigata il 15 luglio, quando il reggimento si preparava a partire per la prima linea. Ma verso le ore 22,45 in entrambi i reggimenti con spari di fucile e grida di ribellione ebbero inizio manifestazioni di rivolta, provocate da “non pochi” facinorosi che, minacciando i loro commilitoni rimasti nelle baracche trattenuti dagli ufficiali, tentarono d’invadere il paese con l’uso di bombe a mano e mitragliatrici. Negli scontri notturni morirono 2 ufficiali e 9 soldati, mentre furono feriti altri 2 ufficiali e 25 soldati. Tutta la VI compagnia del 142° si ammutinò, costringendo l’ufficiale comandante ad allontanarsi. I carabinieri, la cavalleria e le auto blindate, chiamati in aiuto dai comandi, non intervennero perché nell’oscurità non c’era una separazione netta tra i ribelli e gli altri militari. All’alba la rivolta cessò e tutti raggiunsero i reparti.
Al mattino furono fucilati 28 soldati: 16 perché arrestati “con le armi cariche, le canne ancora scottanti”, e 12 in seguito a decimazione della suddetta VI compagnia.
Verso le ore 11 la Brigata Catanzaro iniziò il trasferimento a Villa Vicentina, ma la repressione continuò nei giorni seguenti con altre 4 fucilazioni, 135 rinvii a giudizio di militari, l’allontanamento dalla brigata di 463 soldati e 33 ufficiali e sottufficiali nonché la sostituzione dei comandanti della brigata e dei due reggimenti e il deferimento al tribunale militare del comandante della VI compagnia.
Principale causa della rivolta sarebbe stata la propaganda sovversiva che esaltava la rivoluzione russa. Fra le cause secondarie bisogna, però, considerare la sospensione delle licenze ai numerosi siciliani del 141° e 142° e la convinzione dei soldati che il trasferimento in prima linea spettasse ad altra brigata e non alla “Catanzaro”, che era stata a lungo sul fronte carsico, ritenuto da tutti il più rischioso.
Il reato più diffuso nell’Esercito italiano era quello di diserzione, per il quale i condannati furono 10.272 nel primo anno di guerra, 27.817 nel secondo e addirittura 55.034 nel terzo.
Secondo il gen. Cadorna la Sicilia era un covo pericoloso di renitenti e disertori.
La maggior parte di coloro che erano considerati disertori tornavano in trincea e morivano in combattimento: soltanto il 2% passava al nemico; il restante 98% era in buona parte costituito da uomini che non avevano avuto mai l’intenzione di abbandonare il reparto e che si erano assentati arbitrariamente per un brevissimo periodo oppure erano tornati in ritardo dalla licenza.
Numerosi erano i disertori che, pentendosi, facevano spontaneamente ritorno al reparto, dove venivano processati e rispediti in trincea.
Altrettanto di solito accadeva a chi invece di tornare volontariamente era stato arrestato dalla forza pubblica.
Su 101.665 condanne per diserzione soltanto 370 furono condanne a morte; le altre furono condanne alla reclusione, dopo le quali i condannati dovevano in genere tornare in linea, al fine di impedire che la diserzione diventasse un mezzo per “imboscarsi” nelle prigioni.
Nel 1917 fu molto avvertita l’opposizione fra Esercito e Paese. Soldati e ufficiali si irritavano al pensiero che alle loro spalle ci fosse una nazione sostanzialmente estranea alla guerra. Infatti nelle città italiane continuavano ad essere regolarmente frequentati bar, teatri, locali notturni e negozi, ivi compresi quelli di lusso, mentre le fabbriche di automobili non sapevano più come soddisfare le esigenze dei privati e i gioiellieri lavoravano ad ornare le signore di perle e brillanti. Nello stesso tempo i giornali denunciavano illeciti guadagni e frodi nelle forniture militari.
Soldati ed ufficiali erano ossessionati dal fatto che l’Italia fosse piena d’imboscati. In particolare la fanteria odiava le altre armi (cioè: artiglieria, genio, servizi e cavalleria), perché erano meno esposte ai pericoli. In effetti annualmente la percentuale media delle perdite (morti + feriti) era del 39,8% per la fanteria, del 4,1% per l’artiglieria, del 4,2% per il genio, dello 0,3% per i servizi e del 3,5% per la cavalleria.
I fanti erano in grandissima parte contadini, quindi l’opposizione tra fanti ed imboscati divenne opposizione tra contadini e borghesi, tra contadini e proletariato urbano. I fanti sostenevano che i contadini non avessero nessuna strada per imboscarsi, mentre borghesi ed operai ne avevano cento. In particolare gli operai delle industrie, specie se operanti per la produzione di ciò che era necessario all’Esercito, ottenevano l’esonero dal servizio. Invece ai contadini per i lavori agricoli nel 1915 non furono concessi né esoneri né licenze straordinarie, mentre nel 1916 ci furono brevi licenze e 2.438 esoneri e nel 1917 licenze temporanee di 30 o 40 giorni in numero superiore al passato.
Gli organi che dovevano deciderne la concessione erano diretti non da militari, ma da borghesi, da autorità locali, soggetti ad ogni forma di pressione. In proposito Arrigo Serpieri ha scritto “Grande e terribile era la loro autorità; essi potevano decidere non solo un prezioso aiuto al contadino affaticato, ma anche, forse, della vita o della morte di un figlio, di un fratello di un parente”.
Le domande presentate erano sempre molto più numerose delle licenze che potevano essere concesse, perciò una scelta obiettiva delle stesse era molto difficile, per non dire impossibile.
Nel 1917 alla commissione della Provincia di Roma furono presentate 20.000 domande. Ne furono scelte soltanto 2.000, e la commissione fu perseguitata da lettere, telegrammi e interrogazioni per conto delle 18.000 famiglie deluse.
Numerosissime agitazioni contro la guerra ebbero luogo in Italia nel 1916 e più ancora nel 1917. La più grave si verificò a Torino, dove il 22 agosto 1917 un mancato rifornimento di farina fu causa di una dimostrazione per il pane, la quale degenerò in vero e proprio moto antimilitarista, che durò circa una settimana, provocando trentacinque morti fra i rivoltosi, di cui tre donne, e circa duecento feriti, mentre tra la forza pubblica e i reparti militari, che avevano partecipato alla repressione con mitragliatrici e autoblindo, i morti furono tre. Furono arrestate circa mille persone che, processate per direttissima, furono condannate alla reclusione.
Ma già nel gennaio-marzo 1916, a Firenze, le donne del contado cercarono d’inscenare manifestazioni pacifiste. Nell’aprile successivo, a Mantova, altri gruppi di donne dimostrarono contro la guerra. Verso la fine del 1916 le agitazioni si moltiplicarono in misura impressionante. Quasi ogni lunedì – giorno in cui venivano distribuiti i sussidi alle famiglie dei mobilitati – venivano segnalate dimostrazioni spontanee di donne che reclamavano l’aumento dei sussidi e soprattutto il ritorno dei congiunti. La direzione generale di Pubblica Sicurezza calcolò che dal 1° dicembre 1916 al 15 aprile 1917 ebbero luogo 500 manifestazioni, alle quali parteciparono decine e decine di migliaia di donne.
Nel corso del 1917 gli interventisti più accesi reclamavano insistentemente provvedimenti di carattere eccezionale contro tutti i neutralisti in generale e contro i socialisti in particolare. Perciò diedero vita a comitati e leghe di resistenza interna per mobilitare i loro seguaci e dar la caccia ai neutralisti. Un settimanale, “Il fronte interno”, fu l’organo di questi comitati e diventò presto famoso per il suo tono esasperato e fazioso.
Il 15 maggio 1917 il comitato milanese di resistenza interna avvertì che se il governo avesse continuato a tollerare il “disfattismo”, il popolo si sarebbe fatta giustizia da sé. E il successivo 24 maggio tutte le rappresentanze dei gruppi interventisti, riunite al Campidoglio per celebrare il 2° anniversario dell’entrata in guerra, rivolsero al governo un perentorio invito a non favorire i nemici della vittoria.
Intanto il ministro Leonida Bissolati, cercando ad essere nello stesso tempo il rappresentante dell’interventismo in seno a governo e del governo presso il Comando supremo, agiva perché Cadorna fosse solidale con gli interventisti e contribuiva ad esasperare l’avversione del generalissimo verso il governo e il parlamento.
Nacque così tra interventisti e Comando supremo un vero e proprio “idillio”, del quale numerosissime furono le conferme fino alla disfatta di Caporetto.                                                                  

Cause e svolgimento della battaglia di Caporetto
Nel 1917 e nell’immediato dopoguerra quasi tutti gli studiosi si trovarono d’accordo nel sostenere che la causa principale della sconfitta di Caporetto dovesse essere ricercata in un cedimento morale dei combattenti. Successivamente, invece, la storiografia ha rovesciato tale interpretazione, affermando che la sconfitta fu determinata da cause essenzialmente militari.
In ottobre le truppe italiane si trovavano in uno stato di relativa tranquillità, poiché tutti (da Cadorna fino all’ultimo dei fanti) erano convinti che sul fronte nulla d’importante sarebbe accaduto fino alla primavera del 1918. Una conferma a tale convinzione venne fornita dalla partenza dei primi contingenti di soldati per le licenze invernali. Infatti il giorno 20 circa 120mila militari erano già andati in licenza e i comandi avevano ordinato di far partire per primi i soldati siciliani, ai quali in passato era stato negato di rivedere la famiglia. Pertanto le brigate Enna e Caltanissetta appartenenti al IV corpo d’ armata, che presidiava la zona del fronte, attraverso la quale sarebbero passati gli austro-tedeschi, risultavano ridotte in misura anormale, perché il Comando supremo aveva appunto ordinato di privilegiare ed intensificare la partenze dei soldati siciliani che costituivano le stesse. Inoltre erano in licenza anche circa 500 uomini del 125° reggimento fanteria di quella XIX divisione del XXVII corpo d’armata, che sarebbe stata travolta nelle prime ore della battaglia.
Viene di solito detto che l’offensiva austro-tedesca del 24 ottobre era attesa dai comandi italiani, i quali tra settembre e ottobre avrebbero perciò schierato la seconda armata secondo un piano controffensivo. Invece tra agosto e ottobre le truppe di detta armata erano ancora schierate dove si trovavano dopo l’operazione della Bainzizza e i contrattacchi austriaci. Non esisteva dunque alcun piano di difesa, anche perché, nonostante tutto, da parte degli italiani si continuava a credere che le voci di un’imminente offensiva nemica facessero parte di un bluff.
Nelle due prime settimane di settembre dette voci acquistarono maggiore consistenza, e nella seconda quindicina pervennero anche informazioni relative ad una partecipazione germanica all’offensiva nemica in preparazione.
Ma il gen. Cadorna, già scettico sull’imminenza di un’offensiva nemica, era persuaso che i tedeschi non sarebbero mai intervenuti sul fronte italiano finché Trieste non fosse stata minacciata: per questa ragione aveva deciso di attaccare in direzione di Trieste soltanto nella primavera del ’18, quando gli anglo-francesi e gli americani sarebbero stati in grado di tenere a bada l’esercito germanico.
Egli il 4 ottobre decise dunque di trasferirsi per una vacanza di quindici giorni a Villa Camerini (Vicenza), proponendosi di decidere al ritorno il passaggio dei reparti ai quartieri invernali. Pochi giorni più tardi, il 13 ottobre, un pro-memoria dell’Ufficio Situazione del Comando supremo precisò addirittura che un’offensiva nemica nel settore Tolmino – Monte Santo dovesse considerarsi “molto probabile e prossima”. Il generalissimo però non se ne preoccupò e restò in vacanza, perché riteneva che la seconda armata possedesse forze in abbondanza, e perché nonostante tutto rimaneva convinto che l’offensiva autunnale fosse illogica.
Rientrato a Udine il giorno 19, convocò il generale L. Capello e, dopo avergli consegnato un’alta onorificenza, gli ordinò di rendere idoneo alla controffensiva lo schieramento della seconda armata che, come già detto, era ancora nella posizione raggiunta al termine della battaglia della Bainzizza.
Tutti e due i generali erano ben lontani dall’immaginare l’offensiva nemica così vicina e così poderosa come essa fu.
Il 21 ottobre, cioè ad appena 72 ore dall’inizio della battaglia, un ufficiale ed un soldato boemi e due ufficiali romeni, disertori dall’esercito austro-ungarico, fornirono agli italiani precise notizie sulla minaccia incombente. Ma le loro dichiarazioni non furono interamente credute, in quanto essendo molto dettagliate sembravano vanterie.
Ciò che invece provocò maggiore impressione tra i comandi furono i “tiri d’inquadramento” eseguiti nella mattinata del 21 da alcune batterie nemiche. Al Comando supremo l’atmosfera mutò e si pensò che l’indomani avrebbe avuto inizio il bombardamento che solitamente precedeva le offensive.
Essendo il gen. Capello assente per malattia, Cadorna si occupò personalmente dei preparativi di difesa. I suddetti disertori romeni avevano precisato che l’attacco austro-tedesco sarebbe stato condotto in direzione di Plezzo, presidiato dal IV corpo d’armata del gen. A. Cavaciocchi. Ma il generalissimo, recatosi sul posto, espresse ancora una volta il suo scetticismo dicendo: “Io non credo che il nemico voglia cacciarsi nella conca di Plezzo. E poi vengano pure! Li prenderemo prigionieri e io li manderò a passeggiare a Milano per farli vedere!”
Il 23 mattina Cadorna chiese il motivo per cui le batterie non erano state spostate in posizione difensiva al comandante del XXVIII corpo d’armata, gen. Pietro Badoglio. Questi addusse come scusa il tempo necessario per effettuare tale spostamento con tutte le munizioni e aggiunse di non ritenere imminente un attacco nemico, perché non c’era stato alcun bombardamento di preparazione.
Gli austro-tedeschi sorpresero e poi travolsero gli italiani a Caporetto, perché nella preparazione e nella conduzione della battaglia applicarono i seguenti nuovi procedimenti tattici:

a) Le truppe d’assalto vennero trasportate segretamente nelle zone loro assegnate, con movimenti compiuti soltanto di notte, oscurando gli alloggiamenti, occultando ogni indizio alle investigazioni aeree.

b) I primi militari tedeschi cominciarono a giungere nella zona della battaglia un mese prima che questa avesse inizio.

c) Le artiglierie austro tedesche eseguirono prima della battaglia pochi tiri di “aggiustamento” o di “inquadramento” distribuiti in più giornate, suscitando fra gli italiani incertezze circa le loro effettive intenzioni, al punto che Badoglio la mattina del 23 aveva rassicurato Cadorna, facendogli notare che non c’era stato ancora un vero bombardamento in preparazione di un attacco.

d) La preparazione effettuata dall’artiglieria ebbe iniziò alle ore 2 del 24 ottobre, calò d’intensità fra le 4,30 e le 5,30 fin quasi a cessare; riprese poi violentissima, su una profondità di appena quattro-cinque chilometri, dalle 6,30 alle 8,30; dunque mancò il consueto lungo bombardamento, che dava tempo di adottare opportune contromisure.

e) Fin dall’inizio del bombardamento le artiglierie austro-tedesche diressero il loro intensissimo fuoco non soltanto contro le prime posizioni (dove c’erano le fanterie), ma tiravano anche migliaia di colpi sulle batterie italiane nell’intento di distruggerle.

f) Gli austro-tedeschi impiegarono contro le trincee e le batterie italiane proiettili a gas, contro i quali non esisteva una efficace difesa. In particolare a Plezzo un battaglione tedesco mise in funzione un migliaio di bombole contenenti fosgene per annientare i soldati italiani delle prime linee. Così in soli trenta secondi oltre seicento fanti morirono in silenzio con il fucile al loro fianco. Nel bombardamento, di cui in d), la pausa dalle 4,30 alle 6,30 era proprio finalizzata all’annientamento col gas dei reparti che si fossero portati sulle prime linee.

g) Gli austro-tedeschi non dispersero il loro sforzo lungo un vasto tratto di fronte, ma lo concentrarono su due brevissimi spazi di fondovalle a Plezzo e Tolmino, punti deboli dello schieramento italiano, perché poco guarniti in conformità al principio che “fondamentale era il possesso delle cime”, le quali andavano strenuamente difese, mentre il possesso dei fondovalle ne sarebbe stata automatica conseguenza.

h) Il fuoco delle artiglierie ebbe lo scopo di aprire due varchi, uno a Plezzo e l’altro a Tolmino, attraverso i quali passarono le fanterie senza pretendere, in un primo momento, di far cadere ai loro fianchi lunghi tratti della linea nemica, e senza attendere l’avanzata delle artiglierie.

i) I reparti d’assalto austro-tedeschi erano addestrati e armati per poter applicare la tattica della “infiltrazione”. Cioè i reparti scelti che passavano per primi attraverso i varchi erano addestrati alla manovra, autonomi nell’armamento e guidati da capi, i quali anche nei gradi inferiori erano istruiti per agire di propria iniziativa, essendo previsto che, dopo l’inizio della battaglia, per parecchio tempo essi non avrebbero potuto più ricevere ordini.

l) Infine le riserve furono avviate dove l’attacco progrediva e non contro i punti in cui gli italiani opponevano maggiore resistenza. Pertanto le colonne austro-tedesche irruppero attraverso i due varchi aperti, dilagarono oltre le prime linee, recisero le comunicazioni, colsero alle spalle i reparti italiani.

L’attacco austro-tedesco, condotto con i suddetti procedimenti tattici, costrinse la seconda armata alla ritirata che assunse i caratteri di una vera e propria rotta, poiché numerosi comandi italiani fin dalle prime ore della battaglia non riuscirono più a controllare le loro truppe a causa del bombardamento e della penetrazione dei nemici, che interruppero i collegamenti.
Durante la ritirata, però, molti reparti continuarono a combattere con valore e il 30 ottobre, a Pozzuolo del Friuli, due reggimenti di cavalleria furono massacrati dal nemico, dando luogo al più famoso episodio di resistenza, ma non certo all’unico. In pochi giorni la più volte citata seconda armata ebbe 11.600 morti e 21.950 feriti.
Tuttavia è inevitabile che la ritirata dall’Isonzo al Piave sia ricordata soprattutto per l’enorme fiumana di sbandati che invase le strade del Veneto, e il grandissimo numero di prigionieri lasciati nelle mani dell’avversario. Gli austro-tedeschi catturarono dal 23 ottobre al 26 novembre 294mila italiani, oltre a 3.136 cannoni di vario calibro, a 1.732 bombarde, e anche enormi quantità di munizioni, materiali e viveri. Durante la ritirata si sbandarono circa 300mila soldati.
La confusione impedì a molti comandi di ricevere le notizie ed impartire ordini necessari, perciò numerosi reparti restarono disorientati e paralizzati.
Il violentissimo fuoco delle artiglierie nemiche, i gas, le infiltrazioni di colonne austro-tedesche indussero i primi reparti a ripiegare con l’idea di potersi fermare su un seconda linea, che pur doveva esistere: nessuno immaginava che potesse crollare l’intero fronte.
All’inizio della battaglia Cadorna aveva deciso che la seconda armata resistesse ad oltranza, impartendo severissime disposizioni per prevenire o arrestare le ritirata. Fu poi costituito un “corpo d’armata speciale”, agli ordini del gen. Di Giorgio, col compito di garantire il possesso dei ponti sul Tagliamento e di organizzare pattuglie per la ricerca nelle immediate retrovie dei numerosi sbandati privi di armi, i quali apparivano stanchi, abbrutiti, quasi sempre rassegnati e tranquilli, ma inetti ad ogni opera di resistenza. Quindi era necessario avviarli subito ai campi di raccolta istituiti oltre il Piave, cosa che essi già facevano spontaneamente. Intanto quelli che erano riusciti a prendere un treno per “andare a casa”, si lasciavano facilmente fermare dai carabinieri e condurre a detti campi.
Tuttavia nella confusione generale una grande massa di sbandati riuscì ad ecclissarsi e vagare per l’Italia, saccheggiando e rubando. Perciò in alcune località i carabinieri andavano a caccia dei saccheggiatori, con l’ordine di passarli sommariamente per le armi, dando poi alle fucilazioni eseguite larga pubblicità fra le truppe, anche con manifesti.
Il 2 novembre il generale Andrea Graziani fu nominato “ispettore generale del movimento di sgombro”. Questi, coadiuvato da un gruppo di ufficiali, da carabinieri, e da reparti di cavalleria, intraprese, come egli stesso scrisse, “una vera lotta di aggressione morale e fisica contro le orde degli sbandati”. Infatti per più giorni, spostandosi rapidamente in automobile da un punto all’altro delle retrovie, cercò di dare ordine ai reparti, emanò bandi e minacciò di pena capitale i saccheggiatori, represse con la morte anche piccoli atti d’insubordinazione, essendo convinto che con poche punizioni esemplari si evitavano repressioni maggiori. Per impedire ai fuggiaschi di servirsi di trasporti, a tutti i veicoli che incontrava faceva asportare una ruota, che veniva gettata in un fiume o in un canale. Siccome poi numerosi sbandati, dopo essersi rifocillati nei campi di raccolta, se ne uscivano disperdendosi di nuovo per i campi, fece un bando per minacciarli di morte. Si calcola che solo nei primi giorni di novembre egli abbia fatto eseguire almeno 34 fucilazioni.
Nel 1918 il gen. Graziani comandò la divisione ceco-slovacca schierata sul fronte italiano e per diserzione ne fece fucilare otto militari senza processo.
Allorché il 2 novembre gli austro-tedeschi attraversarono il Tagliamento, il Comando supremo giudicò la situazione estremamente seria, perciò il giorno seguente il ministro Bissolati ne informò il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, che il precedente 30 ottobre era subentrato a Paolo Boselli.
Il Consiglio dei ministri deliberò di inviare subito al fronte il ministro della guerra, gen. Alfieri, munito di pieni poteri. Lo stesso Consiglio il 4 novembre prese in esame l’eventualità di affidare il Comando supremo al duca d’Aosta. La sera dello stesso giorno V. E. Orlando, mentre si recava a Rapallo per una conferenza interalleata con il premier inglese Lloyd George e quello francese Painlevè, ricevette una lettera di Cadorna, con la quale il generalissimo attribuiva la sconfitta di Caporetto alla propaganda disfattista (e quindi alla politica interna di Orlando), e nello stesso tempo avvertiva che sul Piave sarebbe stata possibile un’altra catastrofe, ma lasciava al governo la possibilità di decidere in merito ad una pace separata.

A Rapallo la mattina del 6 novembre Lloyd George e Painlevè comunicarono senza cerimonie a Orlando di non avere fiducia in Cadorna. In particolare il premier britannico dichiarò: “[…] Io non credo che il Comando italiano sia tale da potergli affidare divisioni inglesi e francesi […].

Il presidente Orlando rispose rassicurando gli alleati che era in corso una riorganizzazione dello Stato maggiore.
Egli, infatti, il giorno dopo, poiché era in via di costituzione un nuovo Consiglio Superiore Interalleato, a far parte del quale poteva essere designato Cadorna, inviò da lui a Padova il gen. Porro e il colonnello Gatti affinché gli riferissero che era stato esonerato dal Comando supremo e avrebbe potuto assumere il nuovo incarico. L’incontro ebbe luogo la sera dell’8 novembre e il generalissimo, che non si aspettava l’esonero, dichiarò che non avrebbe mai accettato il nuovo incarico.

Così uscì finalmente di scena il gen. Luigi Cadorna, inventore e accanito sostenitore della “giustizia del piombo”.
                                                                                                      
               
Dal tragico ottobre 1917 alla primavera 1918
La sconfitta di Caporetto e l’esonero del gen. L. Cadorna determinarono la fine della separazione tra potere politico e militare, che aveva caratterizzato la Nazione italiana fin dall’inizio del conflitto. Nello stesso tempo il fatto che le truppe austro-tedesche fossero penetrate profondamente al di qua dei confini nazionali suscitava le più nere previsioni nell’animo di politici e militari italiani. Infatti all’inizio solo pochissimi credevano alla possibilità di fermare il nemico sul Piave. Invece molti erano coloro che ritenevano opportuno ritirarsi fino al Mincio. Di questo si discusse il 15 novembre 1917 in un Consiglio di guerra, durante il quale il gen. Armando Diaz, che dal 30 ottobre era il nuovo Comandante supremo, insisté sulla convenienza di restare schierati sul Piave. Opinione questa condivisa dal capo del governo, V. E. Orlando.

Rimaneva comunque il timore di non poter resistere né sul Piave né sul Mincio, perciò numerosi erano coloro che sostenevano la necessità di una pace separata col nemico, della quale, però, il 10 novembre Luigi Einaudi affermò l’impossibile realizzazione, in quanto l’Italia dipendeva dai suoi alleati per le derrate alimentari, le materie prime, i crediti ecc. . Il successivo giorno 28 anche il ministro Francesco Saverio Nitti affermò che gli italiani non avrebbero potuto sopravvivere neppure un mese senza l’aiuto amichevole degli alleati.

Tuttavia nell’inverno 1917-’18, proprio in ordine ad un’eventuale pace separata, il governo italiano e quello austriaco intavolarono trattative con la mediazione della Santa Sede. Trattative queste che presto furono ritenute inopportune, poiché agli italiani non conveniva negoziare col nemico, mentre gli alleati anglo-francesi si trovavano in gravi difficoltà sul fronte occidentale a causa di una poderosa offensiva austro-tedesca.
L’invasione nemica, seguita alla disfatta di Caporetto, non portò la concordia fra gli italiani, infatti ci furono infiammate polemiche subito dopo la nomina a presidente del Consiglio di V. E. Orlando, che numerosi interventisti indicavano fra i maggiori responsabili della stessa disfatta per la sua politica interna “floscia, irresoluta e snervata”, quando egli faceva parte del governo Boselli. In particolare l’on. Luigi Albertini sosteneva che il governo Orlando fosse il prodotto di una torbida atmosfera parlamentare e il risultato di una combinazione che poteva essere giudicata con favore da giolittiani e socialisti, cioè da neutralisti.
Al fine di combattere il cosiddetto “disfattismo parlamentare”, un centinaio di deputati e senatori, fra cui F. Martini, Antonio Salandra e lo stesso Albertini, si costituirono in “fascio di difesa nazionale”.
Intanto i contadini in Valdinievole (Toscana) gridavano “Viva i tedeschi” (V. F. Martini), quelli delle Marche erano “esultanti” per l’avvenuta disfatta, credendo e sperando nella pace (V. L. Bissolati), il popolo minuto di Torino restava “irriducibile” (V. On De Fabris), quello di Milano cominciava ad augurarsi l’arrivo dei tedeschi (V. U. Notari), e nel “popolino” napoletano serpeggiavano propositi di rivolta (V. Lettera inviata il 15 dicembre da Benedetto Croce al presidente Orlando).
Il Comando del 3° Gruppo Legioni Carabinieri (Roma), in un rapporto sull’ordine pubblico in Toscana, Umbria, Lazio e Sardegna, relativo al periodo 1° settembre - 31 dicembre 1917, segnalò per due sole provincie su dodici, cioè per Roma e Pisa, un miglioramento delle condizioni dello spirito pubblico, le quali erano, invece, rimaste “normali” per Perugia, Cagliari e Sassari. A Firenze le stesse condizioni continuavano ad essere “anormali” per la carenza di generi di prima necessità e per la propaganda dei sovversivi. A Lucca ci si lamentava per il prolungarsi della guerra, mentre ad Arezzo, Massa, Livorno, Siena e Grosseto il “malcontento generale” era motivato dalla difficoltà per gli approvvigionamenti.
Dopo Caporetto neppure le popolazioni rurali della province di Verona, Mantova e Padova, benché fossero sotto la diretta minaccia dell’invasione nemica, furono animate da sentimenti patriottici.
Nel novembre 1917 si notarono sintomi di ripresa fra le truppe, soprattutto nei primi giorni della resistenza sul Piave. Infatti molti reparti si difesero coraggiosamente contro gli assalti nemici. Tuttavia nel complesso lo spirito combattivo dell’esercito italiano continuò a destare non poche apprensioni, per cui ci fu un alternarsi di buone e cattive notizie.
Intanto gli sbandati, dopo il passaggio del Piave, vennero inviati alla rinfusa nei campi di raccolta. In un secondo momento gli stessi vennero suddivisi secondo l’arma a cui appartenevano: 200.000 fanti furono raccolti a Castelfranco Emilia (MO), 80.000 artiglieri a Mirandola (MO), 13.000 genieri a Guastalla (RE) e il carreggio a Copparo (FE). I militari, così suddivisi, cominciarono ad essere inquadrati in reparti organici e riforniti di viveri, vestiario ed armi. I corpi rimessi in efficienza venivano avviati al fronte, dove erano utilizzati con piena fiducia.
Insieme agli sbandati nei campi di raccolta furono radunate alcune migliaia di disertori che al gen. Diaz erano sembrati per la maggior parte “imbevuti” di idee pacifiste e antimilitariste.
Il 14 novembre 3.500 disertori, che erano nella caserma del Macao a Roma, cercarono di ribellarsi e l’ordine venne ristabilito da un reparto di cavalleria. La sera dello stesso giorno i suddetti partirono da detta caserma e, benché scortati da carabinieri e militari armati, durante tutto il percorso cantarono l’Inno dei lavoratori e l’Internazionale e gridarono: “Abbasso Sonnino! Noi non vogliamo la guerra”.
A metà dicembre 1917 il gen. A. Diaz informò il capo del governo che il nemico aveva “enormemente intensificato” lungo tutto il fronte una intensa propaganda demoralizzatrice e pacifista, mediante il lancio di manifestini dagli aerei e dalle trincee, e con il tentativo di stabilire comunicazioni fra le trincee contrapposte. A questo si aggiungeva l’atteggiamento antipatriottico dei contadini nelle immediate retrovie. Era stata anche diffusa la falsa notizia che a Natale ci sarebbe stata la pace, inoltre il 21 dicembre, una fonte vaticana informò addirittura che, sempre per Natale, c’era il pericolo di uno sciopero militare.
Per questi motivi il Comando supremo impartì l’ordine di intensificare la vigilanza delle truppe dipendenti, di promuovere un’azione di contropropaganda patriottica e di spegnere con prontezza ed energia ogni focolaio di propaganda pacifista.
Prima del 25 dicembre furono quindi adottate le dovute precauzioni. Infatti nuclei speciali di carabinieri furono appositamente costituiti o rinforzati, mentre reparti pronti ad ogni evenienza e raggruppamenti di mitragliatrici e di autoblindo furono collocati nei luoghi ritenuti più vulnerabili.
Gli austro-tedeschi, forse informati delle preoccupazioni dei comandi italiani, proprio alla vigilia di Natale, impegnando al massimo le proprie truppe, tentarono di superare la resistenza dei nostri reparti; questi viceversa, resistendo tenacemente, inflissero loro gravi perdite.
Carabinieri, autoblindo e mitragliatrici, appostati per domare la temuta rivolta, vennero quindi ritirati in buon ordine, e il Natale 1917 venne ricordato dagli italiani come un “Natale eroico”.
Le voci di “scioperi militari” al fronte e di complotti socialisti nel Paese indussero il Comando supremo a stabilire un’intesa col governo per stroncare la propaganda disfattista. Fu quindi emanato il cosiddetto “decreto Sacchi”, che prevedeva pene severe per chiunque commettesse o istigasse a commettere un qualsiasi fatto capace di “deprimere lo spirito pubblico”. Applicando questa legge furono poi arrestati il segretario nazionale del Partito socialista, Costantino Lazzari, ed il vice segretario, Nicola Bombacci.
Però nella realtà, dopo Caporetto, l’esercito fu più pressato dalla propaganda “disfattista” degli austriaci che non da quella dei neutralisti italiani. Infatti, mentre aerei e razzi nemici lanciavano continuamente sulle nostre armate attestate sul Piave manifestini ed altro materiale propagandistico, gruppi speciali di militari austriaci capaci di parlare italiano venivano inviati sulle prime linee e cercavano di mettersi in comunicazione con le opposte trincee per fare propaganda e nello stesso tempo per assumere informazioni.
Alcuni argomenti utilizzati dagli austriaci per avvilire lo spirito guerresco degli italiani erano: la pace conclusa con i sovietici e la “fraternizzazione” tra austriaci e russi; le vittorie conseguite dai tedeschi sul fronte occidentale e nella guerra sottomarina; il sostenere che Inghilterra e Stati Uniti fossero potenze imperialistiche che speculavano sulla guerra ed intendessero asservire il mondo; la corruzione del mondo politico italiano; l’insistenza sul fatto che le spose e le fidanzate dei combattenti tradissero mariti e promessi sposi con gli imboscati; il sostenere che il Tirolo e l’Istria non fossero abitate da italiani; il sottolineare la forza degli imperi centrali e la debolezza dell’Italia.
Una volta iniziata la resistenza sul Piave erano stati riscontrati segni di ripresa spirituale, ma presto ebbe inizio un susseguirsi di buoni e cattivi stati d’animo.
Secondo Giuseppe Lombardo Radice sul Piave “si resisteva”, ma c’era diffidenza da parte dei soldati verso la propaganda patriottica, e permaneva negli animi “una esagerata idea della potenza del nemico ed un sordo scetticismo per tutto ciò che si diceva circa la nostra capacità di risorgere e di vincere”. Né i comandanti si trovavano in uno stato d’animo molto diverso da quello delle truppe, in quanto la massima aspirazione patriotica nella media dei giovani ufficiali era quella di affermarsi con un’efficace resistenza, per poter riavere con trattative di pace le province invase”. Essi chiedevano insomma la pace con la mediazione vaticana.
Rino Alessi, a pag. 206 della sua opera “Dall’Isonzo al Piave”, ha scritto che esistevano brigate stanche, si riudivano canzoni di scherno per la guerra, e lo scetticismo si diffondeva fra soldati e ufficiali; alla mense di questi ultimi, anzi, si udivano talvolta “discorsi anarchici”.
Il fatto, riferito da Alessi, che gli ufficiali parlassero come sovversivi sta a significare che il ragionamento di molti militari era il seguente: poiché dopo Caporetto il sogno di conquistare Trento e Trieste era svanito e dal momento che l’Austria con una pace separata avrebbe certamente restituito all’Italia i territori invasi, per chi e per che cosa si continuava a combattere? Si continuava a combattere – era la risposta – non più per l’Italia ma per la Francia e la Gran Bretagna.
All’inizio del novembre 1917, mentre la rotta di Caporetto era ancora in corso, alcune divisioni inglesi e francesi giunsero in Italia e si fermarono tra Mantova, Verona e Brescia. Il Comando supremo italiano invano chiese che almeno una parte di esse fosse subito impiegata contro il nemico. Soltanto il 5 dicembre i comandi alleati consentirono ai primi contingenti di schierarsi sulla linea del Piave, che era ormai tenuta saldamente dalle nostre truppe. Perciò gli italiani ebbero la sensazione che gli anglo-francesi fossero venuti in Italia non come alleati, ma per compiere quasi un’opera di polizia militare. Ad esempio, don Minzoni s’indispettì moltissimo al vedere in qual modo gli ufficiali britannici “ispezionassero e criticassero” lo schieramento adottato dal reggimento di fanteria del quale egli era cappellano.
Sentimenti ostili verso la Gran Bretagna erano presenti fra gli italiani già prima di Caporetto, e nel marzo 1916 Filippo Turati aveva dichiarato in parlamento che i britannici erano interessatissimi a prolungare la guerra, dato che grazie ad essa riuscivano a concludere “eccellenti affari”.
Il risentimento verso gli inglesi superava di gran lunga quello verso i francesi, eppure, dopo Caporetto non dall’Inghilterra ma dalla Francia giunse in Italia un uomo politico intenzionato ad assicurare il predominio militare del suo paese sull’esercito di Diaz. Si trattava del deputato Abel Ferry, che nel dicembre 1917 era stato inviato dal parlamento francese per indagare sulle cause di Caporetto e sui problemi più urgenti dell’esercito italiano. Egli compilò una lunga relazione, nella quale rivolgeva ai quadri delle nostre truppe critiche come le seguenti: lo stato maggiore era di origine aristocratica ed aveva introdotto una disciplina di tipo germanico; gli ufficiali di truppa restavano distanti dai soldati, “non par nature, mais par ordre”; la qualità degli stessi ufficiali lasciava molto a desiderare, anche perché i gradi erano assegnati non ai meritevoli ma ai medio e piccolo borghesi, secondo un criterio sociale; i soldati invece erano buoni, capaci di resistere alla fame e al freddo più dei francesi, e di combattere con slancio. Ferry riferì che, secondo l‘opinione degli ufficiali francesi, l’esercito italiano era eccellente dal punto di vista umano, ma scadente dal punto di vista tecnico. Per rimetterlo in sesto toccava dunque ai francesi intervenire, magari, inviando in Italia 200 – 300 ufficiali istruttori.
Dunque con la ritirata di Caporetto gli italiani, già poco stimati dai francesi, avevano perso di colpo il prestigio militare conquistato con due anni di dure battaglie. Ma non si teneva conto del fatto che i soldati italiani erano poveri, mal vestiti e scarsamente nutriti, mentre quelli francesi e britannici giunti nel Veneto risultavano al confronto ricchi e privilegiati.
Tuttavia la presenza di truppe alleate suscitò sentimenti contrastanti, perché se da una parte destarono inquietudini, dall’altra promossero confronti e ripensamenti che misero in crisi molte norme comportamentali superate o errate. Per esempio, il fatto che i soldati francesi e inglesi ricevessero un trattamento migliore fu uno dei motivi che indussero il Comando supremo a prendere provvedimenti a favore delle truppe.
Alla fine del gennaio 1918 il Ministero dell’Interno chiese ai prefetti di raccogliere notizie sullo spirito delle truppe mediante interrogatori ai soldati che erano in licenza invernale.
Si ebbe così, con notizie raccolte in circa settanta province e circondari, una informazione complessiva, che non giustificava né i giudizi pessimistici, circolanti anche in ambienti governativi, né i giudizi ottimistici di chi immaginava un esercito trasformato dalla resistenza sul Piave. Molti prefetti dichiararono che lo stato d’animo delle truppe era migliorato rispetto all’inverno precedente, definendolo ottimo, buono o soddisfacente; ma nello stesso tempo sottolinearono i preoccupanti segni di stanchezza e di malcontento che inquietavano perfino il presidente Orlando, il quale aveva detto il 15 ottobre al giornalista Olindo Malagodi di ritenere che gli interventisti con i loro discorsi sulla ritirata Caporetto, intesa come “sciopero” o “rivolta politico militare”, avessero finito con l’insinuare nei soldati l’idea di mettere in atto ciò che prima della disfatta non avevano nemmeno pensato di fare.
Il 9 marzo, al Comando supremo, ci fu una riunione, alla quale parteciparono il presidente Orlando, i ministri Bissolati e Nitti, il gen. Diaz e i comandanti delle varie armate. I generali intervenuti dichiararono concordi che c’era stato un grande cambiamento dall’ottobre ‘17 in poi, che il morale delle truppe era “buono”, che l’esercito era ormai ricostituito in piena forza e che la posizione strategica sul Piave risultava “incomparabilmente migliore” di quella sull’Isonzo.
Purtroppo il 21 marzo tornò l’apprensione alla notizia che i tedeschi avevano sfondato il fronte occidentale minacciando direttamente Parigi e Calais. Tuttavia in aprile le angosce scomparvero: l’offensiva tedesca in Francia era stata arrestata.
Gli ultimi mesi del conflitto

1) Nell’aprile 1918 sul fronte del Piave, all’infuori di qualche squadriglia di aviazione, non erano rimasti altri reparti tedeschi. Era dunque lecito supporre che l’offensiva nemica, ritenuta imminente, non ci sarebbe stata almeno per tutto il mese in corso, poiché gli austriaci erano rimasti soli e senza mezzi per poterla condurre a fondo. Questa notizia tranquillizzò il presidente V. E. Orlando che, che recatosi in zona di guerra, poté constatare personalmente il migliorato spirito combattivo delle truppe.
Miglioramento questo riguardo al quale presso il Comando supremo c’era ancora qualche dubbio, che venne dissipato il 12 aprile in un lungo colloquio tra il gen. A. Diaz e il responsabile dell’ufficio informazioni, col Marchetti, al quale fu comunque raccomandato di tenere gli occhi bene aperti.
L’11 maggio gli uffici informazioni di tutte le armate riferirono che il morale dei soldati era “buono” e, sette giorni dopo, giunsero addirittura a qualificarlo “ottimo”.

2) Tra le tante ragioni che modificarono lo stato d’animo dei soldati, ebbero grande importanza i provvedimenti che migliorarono le loro condizioni di vita. Innanzitutto fu aumentato il vitto: la “razione di guerra” fu portata da 3.067 (novembre 1917) a 3.580 calorie (giugno 1918), aumentando la quantità di pane e di carne. Furono creati gli spacci cooperativi, che fornivano a buon mercato viveri, bevande e oggetti di prima necessità. Venne disposta la concessione ai soldati di una seconda licenza annuale di 10 giorni, in aggiunta a quella invernale di 15 giorni. Furono concessi esoneri per lavori agricoli in numero sempre più considerevole. Con due decreti nel dicembre 1917 fu disposta a favore di militari e graduati l’emissione di polizze gratuite di assicurazione per 500 e per 1.000 lire, l’importanza delle quali fu spiegata alle truppe con manifesti e conferenze a cura dell’I.N.A..
Il 1° novembre 1917 fu istituito il Ministero per l’Assistenza militare e le pensioni di guerra. Nel dicembre fu creata l’Opera Nazionale Combattenti per l’assistenza ai militari dopo la smobilitazione e per creare nelle campagne un ceto di produttori associati, costituito da fanti contadini.

3) Dall’inizio del conflitto nell’esercito italiano un minimo di propaganda era dovuta ad iniziative più o meno spontanee di ufficiali e deputati che si trovavano in zona di guerra e con la loro parola incitavano i soldati alla resistenza. In pratica si faceva affidamento sulle cosiddette “conferenze patriottiche”.
Dopo la ritirata di Caporetto passò del tempo prima che autorità politiche e militari si rendessero conto della necessità di uscire dall’improvvisazione ed impiegare un numero adeguato di uomini e mezzi nella propaganda. Uno dei primi tentativi in tal senso fu compiuto da Giuseppe Lombardo Radice presso il Comando dell’Arma del Genio del V Corpo d’Armata. Furono istituiti innanzitutto gli “ufficiali di collegamento con le prime linee”, incaricati di indagare sullo spirito delle truppe, di elencare gli elementi sospetti, di assistere ed incoraggiare gli elementi migliori di ogni reparto, scegliendo con cautela fra di essi i propri fiduciari. Detti ufficiali dovevano essere sempre al corrente delle vicende politiche e compiere un’azione di propaganda “diretta”, distribuendo materiale propagandistico.
Ma particolare importanza veniva attribuita alla propaganda “indiretta”, effettuata secondo il seguente pro-memoria:
«Si fa diramando a tutti gli ufficiali subalterni degli ‘spunti di conversazione con i soldati’. Lo scopo precipuo che il Comando si propone è quello di far circolare fra tutte le truppe dipendenti lo stesso gruppo di idee, che siano come i ‘nuclei vitali’ del pensiero che deve animare i soldati. Spostandosi un reparto e venendo i suoi soldati a contatto con quelli di un altro, hanno così occasione di sentire da superiori e da compagni di altri corpi ed armi le stesse idee. Unità di pensiero a tutta la grande unità che, come ha un capo militare nel suo generale, così deve avere un’anima sola.»
Anche il gen. Capello, che dopo Caporetto aveva avuto il comando di un’armata costituita in gran parte di sbandati, aveva istituito nel novembre 1917 un ufficio propaganda, col compito di organizzare conferenze, inchieste, spettacoli fra le truppe. Solo il 1° febbraio 1918 il Comando supremo prescrisse che tutte le armate designassero un ufficiale con l’esclusivo incarico della propaganda fra le truppe.
Tra la fine di febbraio e i primi di marzo un’attiva opera di propaganda fu resa necessaria e improcrastinabile da circostanze come le seguenti:
  • smentire i messaggi contenuti nei manifestini, ci cui gli austriaci inondavano le retrovie:
  • partecipare all’organizzazione messa i atto dagli alleati per una forte pressione propagandistica sul nemico;
  • "nobilitare” agli occhi delle masse il nuovo volto che assumeva il conflitto dopo la rivoluzione russa e l’intervento degli Stati Uniti. 
Molto utile ad ogni attività propagandistica fu il grandissimo numero di giornali per i soldati, detti “giornali di trincea”. A metà giugno erano circa cinquanta i periodici stampati per le truppe italiane.

4) Nella primavera del 1918 “la propaganda di massa”, le cui possibilità erano ancora praticamente sconosciute, cominciò ad essere adoperata con ricchezza di mezzi, ma nello stesso tempo con ingenuità ed empirismo. Tuttavia si rivelò subito uno strumento efficace per ridare slancio ai combattenti.
Cartoline, opuscoli, libri e manifesti furono diffusi a centinaia di migliaia di copie sia dalle autorità militari che dai comitati ed associazioni civili.
Intanto, a partire dal marzo 1918, le varie armate cominciarono a dare un assetto definitivo ai servizi di propaganda, e coloro che prime erano gli “ufficiali di collegamento con le prime linee” diventarono “ufficiali P.” (ufficiali per la propaganda) che, oltre a tenere lezioni agli altri ufficiali e conversazioni alle truppe, dovevano fra l’altro cercare di: eliminare le cause di malcontento, curando vitto, igiene e vestiario; aiutare i soldati a scrivere alla famiglia; tenere vivo il buonumore e spronare al gioco; impiantare campi sportivi cinematografi; distribuire carta da lettere e pubblicazioni.
Inoltre gli “ufficiali P.” dovevano: individuare gli elementi buoni, patriottici e fidati; sorvegliare i sospetti e premiare i buoni; combattere l’autolesionismo in accordo con medici e cappellani.
Agli stessi “ufficiali venivano anche suggeriti particolari argomenti di conversazione, come ad esempio: il rafforzare l’odio contro il nemico che assassinava donne, bambini e impiegava le mazze ferrate; l’evidenziare l’importanza dei miglioramenti concessi (razione viveri, assicurazione gratuita ecc.).

5) Sempre dal marzo 1918 ebbe inizio un’intensa propaganda finalizzata a rompere la coesione dell’esercito austro–ungarico, che era composto da tedeschi, ungheresi, boemi, slovacchi, croati, sloveni ecc. .
I risultati ottenuti con tale propaganda furono poi giudicati molto buoni dal punto di vista militare, anche perché con essa si minava la compattezza di un esercito in cui tedeschi e ungheresi erano considerati popoli predominanti, mentre gli altri erano gli oppressi, i forzati.

6) Quando entrarono in guerra gli Stati Uniti d’America molti italiani pensavano che essi, essendo privi di qualità militari, non fossero in grado di contribuire positivamente alla lotta contro gli Imperi Centrali.
Invece gli U.S.A. in breve conquistarono l’opinione pubblica italiana, perché possedevano il prestigio della grande potenza, esaltavano gli ideali della democrazia e soprattutto inviavano uomini e copiosi mezzi per soccorrere la popolazione civile e l’esercito.
Grande ammirazione riscuoteva da parte degli italiani il presidente U.S.A., Thomas Woodrow Wilson, che dopo il suo famoso discorso dei “quattordici punti”, pronunciato l’8 gennaio 1918 dinanzi al Senato americano, era considerato massimo artefice di pace e di salvezza.

7) Dopo Caporetto in molti ambienti militari e politici il clero era considerato corresponsabile della crisi morale, con la quale veniva solitamente spiegata la sconfitta: al papa si rinfacciava il discorso sulla “inutile strage”, mentre i cappellani venivano accusati di “disfattismo politico”. Questo atteggiamento presto assunse il carattere di totale diffidenza. In particolare don Giovanni Minzoni, che dirigeva con grandi impegno e competenza la “case del soldato”, venne improvvisamente degradato a vice direttore, mentre la direzione delle stesse case venne affidata ad un maggiore dei carabinieri.
Nel corso del 1918 gli “ufficiali P” assunsero addirittura la funzione di controllori dei cappellani.

8) Gli austro–tedeschi speravano che il proprio successo nell’offensiva di Caporetto potesse provocare la rottura del fronte interno italiano e, quindi, la guerra civile come era avvento in Russia. Ma il contegno assunto dopo la disfatta dal Partito socialista e dalla classe operaia deluse i governi degli Imperi Centrali. Infatti C. Treves e F. Turati addirittura affermarono che il proletariato avrebbe salvato la patria senza rinnegare se stesso, cioè confermarono di non volersi staccare dalla formula “non aderire e non sabotare”.
Si può, dunque, dire che nel 1918 in Italia gli ideali wilsoniani prevalessero su quelli leninisti, in quanto all’epoca era in voga la formula: «Wilson o Lenin».

9) Il generale Armando Diaz, già comandante sul Carso del XXII Corpo d’armata fu nominato Comandante supremo dopo l’esonero di Luigi Cadorna.
Con l’avvento di Diaz divennero molto rari i disaccordi e le tensioni tra il Comando e il Governo.
Il presidente V. E. Orlando scrisse nelle sue memorie che il periodo Diaz era stato “il solo periodo della storia della guerra in tutti i paesi belligeranti”, in cui ci fosse stata “perfetta armonia e completa e leale collaborazione in tutti i sensi – tecnica compresa – fra il capo civile e quello militare.”

10) Quanto alla disciplina dei soldati il comandante supremo Diaz, pur non avendo ripudiato ufficialmente le numerose rigide regole introdotte da Cadorna, certamente non permetteva né i giudizi sommari né le decimazioni, nonostante che i soldati continuassero a disertare, mentre sostanzialmente lo spirito dell’esercito tendeva a migliorare.
I nuovi rapporti instaurati tra Comando e Governo fecero sì che le diserzioni dei militari non divenissero occasione per uno scambio di reciproche accuse. I due poteri collaborarono nella ricerca delle cause e nell’applicazione dei rimedi.

11) Nei primi mesi del 1918 i soldati austriaci avevano patito la fame, e solo a giugno avevano cominciato a ricevere normali razioni alimentari. Intanto i loro comandi, in attesa della prossima offensiva, cercavano di aumentare la combattività sia col dire che in Italia i magazzini di alimentari erano fornitissimi sia col dare istruzioni sul come gli stessi potevano essere saccheggiati durante un prossimo attacco, senza che nulla andasse sprecato. Nello stesso tempo colonne di carri, dette colonne di bottino”, venivano predisposte nelle retrovie.
Comunque l’esercito austro–ungarico era molto più armato che non prima di Caporetto, perché aveva 680 battaglioni e 7.000 pezzi d’artiglieria, contro i 574 battaglioni e i 5.255 cannoni dell’ottobre 1917.
Gli austriaci, però, nel giugno 1918, rimasti senza l’appoggio dei generali tedeschi, dimenticarono l’esperienza di Caporetto. Infatti dispersero le forze su un fronte molto lungo, non riuscirono a sfruttare l’elemento sorpresa e impiegarono le artiglierie con criteri molto meno efficaci.
I comandi italiani, viceversa, dimostrarono di avere appreso la lezione di Caporetto. Infatti, disponendo di un buon servizio d’informazioni, riuscirono a conoscere in anticipo le mosse del nemico, iniziarono tempestivamente i bombardamenti, schierarono le truppe in profondità nel caso che gli austriaci fossero riusciti a passare il Piave.
Sebbene all’inizio dei combattimenti la spirito dei nostri soldati fosse abbastanza alto, allorché gli austriaci lanciarono circa 170mila proiettili a gas ci furono momenti di panico, che, però, furono presto superati con una rinnovata volontà di resistenza.

12) Il felice esito della battaglia del Piave ridiede animo agli italiani e fece ritenere che la crisi di Caporetto fosse stata definitivamente superata. La popolazione civile apparve disposta ad affrontare nuovi disagi, mentre nella psicologia dei soldati sembrò essersi prodotto un mutamento profondo e universale. C’erano, dunque, le condizioni affinché l’esercito italiano non continuasse a stare sulla difensiva.
Francesi, inglesi e americani chiedevano con insistenza che Diaz lanciasse il suo esercito all’attacco, spinti a ciò dal desiderio che l’Italia, impegnando sul fronte sud buona parte delle forze nemiche, rendesse loro più facile il compito sul fronte ovest.
Anche il ministro degli esteri, Sidney Sonnino, temendo che l’Italia finisse col doversi presentare alla Conferenza di pace senza aver neppure tentato di riconquistare i territori perduti nel 1917, sollecitava il Comandante supremo a passare all’offensiva. Badoglio e Nitti, condividendo l’opinione di Diaz che la guerra non sarebbe finita prima del 1919, ritenevano come lui che fosse opportuno conservare intatte le energie delle truppe per lo sforzo finale che sarebbe stato compiuto solo allora.
Intanto i tedeschi subivano pesanti perdite sul fronte occidentale, mentre manifestazioni pacifiste avvenivano in Austria e Germania e i governi degli Imperi Centrali sembravano desiderosi di uscire dal conflitto.
Pertanto il presidente V. E. Orlando riconobbe anche lui che fosse necessario prendere al più presto l’iniziativa di una battaglia sul Piave.
Ma il Comandante supremo continuò a tergiversare e decise l’offensiva solo quando fu evidente che la guerra stava proprio volgendo al termine, per cui Vienna avrebbe potuto accettare improvvisamente la pace.
Quindi nella tanto esaltata battaglia di Vittorio Veneto (che ebbe inizio il 26 ottobre 1918 e non il 24) in effetti, come scrisse L. Albertini, “gli italiani raccolsero, dopo due tre giorni di lotta il frutto delle ribellioni che dissolvevano l’esercito austro- ungarico”, le cui condizioni morali e materiali erano oltremodo precarie soprattutto a causa della mancanza di cibo.
Nonostante tutto gli austriaci non rinunziarono alla lotta e all’inizio opposero una energica resistenza. Ma dopo alcune ore le loro prime linee cedettero e non ci fu più battaglia. A tal proposito G. Prezzolini scrisse: “Vittorio Veneto è una ritirata che abbiamo disordinato e confuso, non una battaglia che abbiamo vinto. Questa è la verità che si deve dire agli italiani: la verità che gli italiani debbono lasciarsi dire.”
Che nel 1918 a Vittorio Veneto gli italiani non abbiano vinto, ma soltanto disordinato e confuso la tragica ritirata dell’esercito austro–ungarico è inconfutabilmente dimostrato tanto dalla foto di copertina (Trento – La fuga degli Austriaci 2–11-18) quanto dalla relazione riportata qui di seguito. Si tratta di due documenti prodotti da persone presenti in zona di guerra.


Relazione Weber
«L’ultimo atto del gigantesco dramma è incominciato. Una vera e propria fiumana uscita dall’inferno di fuoco attraverso cento camminamenti, sentieri, campi straripa sugli argini, si gonfia impetuosa sulle strade: uomini, cannoni, automobili, cavalli, carri e di nuovo uomini, uomini, uomini. La terra brucia sotto i piedi, il terrore ottenebra il cervello, ognuno si sente nemico dell’altro.
Non appena si leva il nuovo giorno, mi arrampico su un gigantesco pioppo, tra i cui rami avevamo collocato un secondo osservatorio. Il quadro che si presenta ai miei occhi è addirittura babelico: sulle due uniche strade che attraversano la zona, si muovono compatte masse di uomini, mentre a passo di corsa nuovi gruppi sbucano dai filari di viti e vengono inghiottiti, strappati, trascinati via dalla fiumana.
Più a nord, attraverso le nubi prodotte dalle esplosioni della granate italiane, si distinguono altre masse in movimento. Sono i resti dell’esercito in sfacelo sparpagliati in settanta chilometri di fronte e spietatamente bombardati dall’artiglieria nemica.
Adesso i primi palloni frenati si alzano lungo il Piave, terribilmente vicini, proprio a ridosso dell’argine. Le batterie tuonano sempre più potentemente.
La strada sembra la salvezza ed è invece la fine di innumerevoli soldati che vengono fatti a pezzi dall’ultimo bombardamento della guerra, però quelli che rimangono incolumi vi si aggrappano saldamente e continuano la marcia, per essere raggiunti, quindici chilometri più in là, dalle granate dei cannoni di lunga portata.
La fiumana nella quale ci dobbiamo immergere passa vicino a noi. Avanti dunque, soltanto avanti! Chi non può camminare è perduto, chi si piega verrà polverizzato, chi inciampa sarà gettato vivo nella tomba. La macina gigantesca degli stivali fangosi, degli zoccoli dei cavalli, delle ruote dei carri, coprirà le sue grida di aiuto e passerà sul suo corpo.
Le fruste schioccano sulle groppe dei cavalli. Una mano si aggrappa a un carro, per aiutare le gambe vacillanti. Che nessuno osi gravare del suo peso i nostri cavalli! Non ci saranno invocazioni e neppure minacce: la violenza soltanto può procurare spazio e salvezza.
Il fucile che portiamo sulle spalle ci servirà contro il vicino che oserà mettersi attraverso la strada; la galletta nel tascapane è un segreto nascosto tenacemente ad altri che non ne hanno più. L’ultima scatoletta di carne viene aperta e mangiata in piena corsa, prima che una mano più forte l’afferri.
Avanti, soltanto avanti! Non è un popolo che si ritira lottando per la sua salvezza: sono nove popoli, tutti armati e messi sulle stesse strade, che si urtano l’un l’altro pieni di odio e di rancore.
Alle loro spalle incalza il nemico, bramoso di bottino e di prigionieri. Gli shrapnel scoppiano sulle file dei fuggitivi, li abbattono a decine; le sue granate battono gli incroci stradali e i villaggi; i suoi aeroplani scaricano mitragliatrici e lanciano bombe. Una disfatta come questa non si era ancora vista nella storia del mondo.
»
F. Weber
Tenente d’artiglieria austriaco


B I B L I O G R A F I A

Alessi Rino, Dall’Isonzo al Piave, Ed. I Record – Mondadori, Milano,1966 .
Comisso Giovanni, Giorni di Guerra, Ed. Oscar Mondadori, Milano
Hemingway Ernest, Addio alle armi, Ed. Oscar Mondadori, Milano, 2014.
Melograni Piero, Storia politica della Grande Guerra/1915-1918, Ed. Oscar Storia Mondadori, Milano, 2015.
Montanelli Indro, Storia d’Italia, volume VI, RCS Quotidiani, Milano, 2003.
Thompson Mark, La Guerra Bianca, Il Saggiatore Tascabili, Milano, 2012.
Ungaretti Giuseppe, I poeti italiani/7, Ed. de “L’Unità”.


Questa pubblicazione è stata completata il 1° dicembre 2016.
Pietro Congedo