sabato 28 novembre 2015

Pietro Colonna detto "Il Galatino" - parte seconda




Le opere di Pietro  Galatino
   Pietro Galatino dell’Ordine dei Frati Minori nel 1506 dedica al re di Spagna, Ferdinando II il Cattolico, che aveva occupato Napoli, l’opera “De optimi principis”.

   Scrive nel 1507 la “Espositio dulcissimi nominis tetragrammaton”, sulla questione relativa alla pronunzia del nome ebraico di Dio, e dopo produce le  opere indicate qui di seguito, adottando quasi sempre il criterio base della sua esegesi, che consiste nell’ interpretare tutta la S. Scrittura come riferita a Cristo e alla Chiesa.

Nel 1515 pubblica sia la “Oratio De Circumcisione Dominica” sul mistero della Circoncisione di Gesù, letta il 1° gennaio alla presenza di papa Leone X, sia la “Epistola ad Reuchlin”, indirizzata al grecista tedesco Giovanni Reuchlin, nella quale  con ricercata eleganza annunzia la sua prossima opera, dedicata all’Imperatore Massimiliano I ed intitolata “De arcanis catholicae veritatis”(*). Quest’ultima, terminata nel 1516, è l’unico scritto che lo stesso autore fece stampare, ad Ortona a Mare (CH) nel 1518, sotto gli auspici della duchessa di Bari Isabella d’Aragona. Quindi è anche il suo scritto più noto e diffuso.  Si compone di dodici libri e dopo la morte dell’autore è stato anche pubblicato a Basilea (2 volte), a Parigi nel 1603 e a Francoforte (3 volte). Una copia dell’edizione 1518 è nella Biblioteca di Galatina. Nelle edizioni postume la stessa  compare unita al De arte cabalistica di Reuchlin.

Il “De arcanis…” è redatto in forma di dialogo, di cui sono interlocutori lo stesso autore (Galatinus), il Reuchlin (Capsius) e Giacomo Hochstratem, inquisitor fidei, al quale lo stesso Reuchlin è stato deferito (Hogostratos). Quest’ultimo sostiene che tutti i libri usati dagli ebrei debbano essere respinti, perché nessuno di essi giova al Cristianesimo, gli si oppongono i primi due con un serrato ragionamento, tendente a dimostrare che quei libri sono invece utili in quanto forniscono argomenti comprovanti la verità delle dottrina cattolica.
Ne viene fuori un commentario esegetico, teologico e mistico di Bibbia e Talmud.

   Scrive nel 1519 il “Libellus de morte consolatorius ad Leone X”, in occasione della morte del duca di Urbino, Lorenzo dei Medici, nipote del pontefice.

   E’ del 1521 il “De repubblica christiana”, opuscolo dedicato anch’esso a Leone X, nel quale sono dibattute questioni ascetico–formative. Infatti, considerate le condizioni morali ed intellettuali del clero, macchiato da ambizioni temporalistiche, da esasperato individualismo e vita frivola, si pensa che la Chiesa non solo richieda vescovi saggi, virtuosi e culturalmente illuminati, ma anche degni sacerdoti nonché dotti e santi religiosi. Proprio a questi ultimi competerebbe in modo specifico il ministero della predicazione, accompagnata questa da vita esemplare che offra testimonianza di buon esempio.

   Del 1522 è soltanto la “Oratio de dominica passione”, predica sulla passione di Gesù, tenuta il venerdì santo nella cappella del Papa.

    Sicuramente del 1523 è il “De septem Ecclesiae tum temporibus tum statibus”, dedicato al cardinale Francesco Quinones: è un’introduzione al commento dell’Apocalisse di qualche anno dopo; infatti vi si accenna alle sette epoche corrispondenti, secondo le interpretazioni mistiche, a sette diverse condizioni della Chiesa. In particolare, quando si parla dei bizantini scismatici, che preferiscono i Principi secolari al Sommo Pontefice, si accenna a Martin Lutero.
Anteriore al 1524 è il “De Ecclesia destituta” (cioè abbandonata) , in 8  libri, nei quali si discute delle calamità della Chiesa attraverso l’interpretazione sia delle profezie  bibliche che di quelle medioevali, facendo di queste larga menzione.

E’ pure anteriore al 1524 il “De Ecclesia restituta” (cioè restaurata),  in 5 libri, nei quali ricercando il senso mistico di alcuni Salmi, delle profezie bibliche e dell’Apocalisse, si conclude che la vera riforma della Chiesa potrà ottenersi col ritorno al suo stato originario.

   Sempre col criterio della lettura allegorica è stato compilato nel 1524 e dedicato all’imperatore Carlo V “Il commento dell’Apocalisse, in 10 libri, nei quali l’autore, pur riconoscendo il merito dei commentatori precedenti (soprattutto dell’abate Gioacchino da Fiore), sostiene che solo al suo tempo si sarebbero potute vedere chiare le allusioni agli ultimi avvenimenti. Con questa convinzione identifica nel settimo capo della bestia apocalittica l’Islamismo, che solo l’imperatore Carlo V avrebbe potuto recidere, riconducendo così tutte le genti alla religione cristiana.
In questo testo è inserita la descrizione dell’eccidio di Otranto del 1480.
   Del 1525 è la “Vaticini Romani explicatio” che contiene l’interpretazione di un oscuro vaticinio, dato a Roma nel 1160.

   E’ stato compilato nel 1526 il “De Sacra Scriptura recte interpretanda”, che ha il sottotitolo “Ostium apertum” (la porta aperta), nel quale sono esposti i criteri da adottare per aprire la porta che nasconde agli occhi umani le verità scritturali più riposte, le quali si rivelano con modalità diverse da epoca a epoca, perché i misteri occultati dal senso letterale del testo si attuano nella storia a seconda dei tempi e delle persone; lo scritto è dedicato al re d’Inghilterra Enrico VIII.
   Di incerta datazione è il “De cognoscendis pestilendibus hominibus deque refellendis eorum versutiis” , in 2 libri e dedicato al cardinale Andrea della Valle, il quale scritto contiene una serie  di consigli per difendersi dai malvagi.

   E’ del 1532 il “De SS. Eucharistiae sacramenti mysteriis” , il cui contenuto risulta evidente dal titolo.

   E’ certamente successiva al 1533 la “Emendatio opusculorum de mysteriis et de Domini nostri Iesu Christi generatione”, dedicata al vescovo Paolo Capizucchi, che aveva invitato l’autore a correggere e ridurre alla retta lezione i  due opuscoli ebraici non ben tradotti in latino forse dall’aragonese Paolo de Heredia, maestro di Pico  della Mirandola; se fossero state vere le ipotesi fatte dal Galatino in seguito alla emendatio, i due brevi scritti avrebbero avuto rara importanza storica e il secondo sarebbe stato composto addirittura nei giorni della passione di Gesù Cristo.

    E’ stato scritto dopo il 1534 il “De Ecclesia Instituta”, in 3 libri, nei quali l’autore, facendosi interprete dell’attesa generale dei cristiani che papa Paolo III compia l’auspicata riforma della Chiesa, delinea l’istituzione della stessa, interpretando i passi della S. Scrittura che si riferiscono alle sue fortunose vicende.

Anche dopo 1534 sarebbero state scritte le due operette dedicate al cardinale Nicola Rodolfo, “De anima Intellectiva” e “De homine”: la prima tratta dell’essenza, della potenza e dell’immortalità dell’anima; nella seconda si parla della congiunzione dell’anima razionale al corpo e vi è chiarito il concetto dell’uomo considerato come un “microcosmo”.

   Dal 1534  il Galatino, ormai settantaquattrenne, si dedicava al vastissimo “De vera Theologia”, repertorio di scienza teologica rimasto nel 1539 incompleto dopo le prime cinque parti, già comprendenti circa cinquanta libri, nei quali, partendo dal concetto di Dio, passando per tutta la serie degli esseri creati fino all’uomo, viene trattata la sua caduta e della sua redenzione; inizia con la dedica a Paolo III ed alla  V parte segue, come appendice, il trattatello  “De idiomatum communicatione”.      

   Intorno al 1539 è stata compilata l’opera “De Angelico Pastore”, riguardante l’atteso pontefice, dalle caratteristiche specificate in varie profezie, il quale avrebbe riformato la Chiesa, riconducendola alla povertà e al servizio di Dio.
L’autore in questa sua opera raccoglie tutte le elucubrazioni sull’argomento, che aveva già espresse in vari suoi scritti.

   Dopo questa rassegna delle opere di Pietro Galatino, c’è da osservare che egli non traccia un piano concreto per la riforma della Chiesa. Infatti, benché nelle sue riflessioni si mostri consapevole degli errori commessi e dei mali provocati dagli ecclesiastici, conclude poi solo col proporre una serie d’iniziative di cambiamento, in base alle quali l’Angelico Pastore avrebbe potuto impostare un proprio piano di rinnovamento della Chiesa. Perciò la riforma tanto auspicata dal teologo francescano, finisce col rimanere vaga ed aleatoria nonché  condizionata dalla figura dell’ipotetico Angelico Pastore.

   Invece egli poteva e doveva stimolare direttamente e con urgenza i Pontefici suoi contemporanei, su cui esercitava un certo ascendente, affinché programmassero e mettessero in atto concreti piani di riforma.

Conclusioni
   A conclusione di questa presentazione della vita e delle opere del personaggio di fama mondiale, qual è stato Pietro Colonna, si ritiene opportuno accennare alla considerazione in cui lo stesso è stato ed è tuttora tenuto dai suoi conterranei.

Il suo nome è reso noto a tutti da una Commissione Comunale, presieduta dal Sindaco pro tempore, la quale il 5 novembre 1873 compila un nuovo regolamento per il Ginnasio-Convitto di Galatina, che all’articolo 1 recita: “Lo stabilimento letterario sistente (sic) in Galatina prenderà da oggi innanzi il nome di Ginnasio-Convitto Galatino, in memoria dell’illustre cittadino Pietro Galatino”.

   Successivamente l’Istituto, con decreto 3 marzo 1898 del re Umberto I, è dichiarato ‘Istituto Pubblico di Assistenza e Beneficenza’ ovvero ‘Opera Pia’. La Commissione Amministrativa di questa viene eletta dal Consiglio Comunale con delibera n. 50/1899, in cui compare per la prima volta la denominazione Pio Istituto Pietro Colonna detto il Galatino, poi usata nella forma ridotta Pio Istituto P. Colonna.

   Nella pratica con questa denominazione si è poi indicato tanto Scuola e Convitto  quanto l’edificio ospitante gli stessi, cioè l’ex convento dei PP. Domenicani, ora “Palazzo della Cultura". Questo, dunque, è stato di fatto il “monumento” che nel XIX secolo gli amministratori comunali di Galatina hanno inteso erigere al grande concittadino Pietro Colonna.

Purtroppo, però, dopo 123 anni amministratori comunali del XXI hanno con disinvoltura soppresso la ormai consolidata denominazione di detto edificio. Ma sanno costoro chi era Pietro Galatino?    


Pietro Congedo
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(*) In effetti nella prima pagina di copertina c’è la seguente epigrafe, nella quale, eliminate le abbreviazioni con l’aggiunta delle lettere tra parentesi, si legge:
Opus toti christian(a)e Reipubblic(a)e maxime utile, de arcanis
chatholic(a)e veritatis contra obstinatissimam Iud(a)eoru(m)
nostr(a)e tempestatis perfidiam: ex Talmud aliisque
hebraicis libris nuper excerptun: &  
quadruplici linguarum genere
eleganter cogestum
[Traduzione: L’opera più utile in tutto il mondo, riguardo ai misteri della verità cattolica contro l’ostinatissima perfidia dei giudei del nostro tempo: estratta ultimamente dal Talmud e da altri libri ebraici, scritta correttamente in quattro lingue.] 
A questa epigrafe segue un epigramma in ebraico in lode dell’autore del libro 











venerdì 13 novembre 2015

Pietro Colonna detto "Il Galatino" - parte prima



  Premessa
 Un’apposita commissione, della quale facevano parte Luigi Papadia (sindaco e presidente), Antonio Dolce, Pietro Garrisi e Giuseppe Galluccio, compilò il 5 novembre 1873 per il Ginnasio – Convitto di Galatina un nuovo regolamento, che all’art. 1 recitava testualmente: “Lo stabilimento letterario sistente (sic) in Galatina prenderà da oggi innanzi il nome di Ginnasio-Convitto Galatino, in memoria dell’illustre cittadino Pietro Galatino.”

    Con decreto 3 marzo 1898 il Ginnasio-Convitto Galatino venne dichiarato dal re Umberto I istituto pubblico di beneficenza (IPAB), ovvero opera pia. In seguito la Commissione Amministrativa dello stesso IPAB fu nominata dal Consiglio Comunale di Galatina con delibera n. 50 del 7 agosto 1999. In questa delibera compare per la prima volta la denominazione Pio Istituto  Pietro Colonna detto il Galatino, usata poi nella forma ridotta Pio Istituto P. Colonna. Denominazione quest’ultima con cui è stato, quindi, sostituito nella pratica il nome Ginnasio-Convitto Galatino del 1873.

   Il nome del grande e famoso umanista italiano Pietro Colonna detto il Galatino è noto a tutti solo in quanto attribuito alle Scuole Classiche e all’annesso Convitto maschile di Galatina. Invece gli studiosi (in particolare i letterati, i filosofi e i teologi) conoscono bene di lui la singolare biografia e il grande valore delle numerose opere.

   Scopo di questo scritto è quello di dare anche al grande pubblico, specialmente a quello giovanile, la possibilità di venire a conoscenza, almeno per grandi linee, della vita e delle opere dell’illustre galatinese che fu teologo, filosofo ed esegeta di fama mondiale.

   La vita
   Non si conosce con esattezza la denominazione del casato di Pietro Galatino, che si  faceva chiamare in tal modo dal nome della città natale in quanto appartenente all’Ordine dei Frati Minori.

   Tuttavia il domenicano Alessandro Tommaso Arcudi, nella sua opera Galatina Letterata (Genova, 1709), con sicurezza afferma testualmente: “…Nacque in S. Pietro in Galatina da Filippo Colonna, famiglia estinta: ed una sorella, chiamata Leonarda, fu moglie di Antonio Arcudi…” . Opinione questa che, sebbene all’epoca fosse condivisa da altri autori, lo stesso A.T. Arcudi  fu costretto a difendere strenuamente  in polemica con l’abate Domenico De Angelis, autore dell’opera in due tomi “Le vite de’ Letterati Salentini” (Napoli , 1713), nella quale a pag. 213 è addirittura riportato il ritratto del Galatino con la scritta:

 “Petro Mongiò vulgo dicto  Galatino a S. Petro Galatinae. […]. 
   Dominicus de Angelis Lyciensis.

L’Arcudi nel corso di detta polemica col De Angelis affermò anche che la madre del Galatino si chiamava Caterina Mollona.

   Intanto la tesi del De Angelis sembrava prevalere, in quanto il galatinese arcivescovo  di Lanciano e poi vescovo di Pozzuoli, Lorenzo Mongiò (1551 – 1632),  dichiarandosi pronipote del Galatino otteneva dal papa  il permesso di trascriverne le opere, che si trovavano nella Biblioteca Vaticana. Ma a tal proposito l’Arcudi aveva già scritto che il suddetto Lorenzo Mongiò fosse “…pronepote del Galatino per via materna…”.

   Con accurate ricerche sulla denominazione del casato del personaggio in questione, lo storico Giancarlo Vallone ha demolito la tesi che la stessa fosse ‘Colonna’, ma senza accettare quella di ‘Mongiò’. Egli, Infatti, nel 1989 ha pubblicato un saggio dal titolo propositivo “Pietro S. Galatino”, nel quale in maniera adeguatamente documentata sostiene che la lettera iniziale del vero cognome del Galatino fosse una “S”,  introduttiva di un cognome probabilmente albanese. Questo è stato poi confermato, sia pure con qualche riserva, dallo stesso Vallone in un suo articolo, pubblicato nel n. 5 /2013 della rivista ‘il filo di Aracne’. Tale conferma è avvenuta sulla base di uno scritto dell’artista galatinese Pietro Cavoti, rinvenuto nel museo di Galatina da Luigi Galante, dal quale scritto si apprende che il Galatino era figlio del soldato albanese  Tho. Spanoi che, sbarcato in Calabria con  l’esercito del condottiero Demetrio Reres, aveva disertato e, vagando senza fissa dimora, si era rifugiato, forse nel 1459, in Galatina. Qui fu assunto come domestico da persone benestanti e, messa su famiglia, ebbe dei figli, tra i quali Pietro Spanoi, il quale  volle cambiare per sempre il proprio cognome con quello di Galatino, datogli dai francescani del Convento Santa Caterina, dove aveva iniziato i suoi studi.

Tuttavia c’è chi sostiene che, mentre rifiutava il suo vero cognome, egli accettava o addirittura agevolava quello di Colonna, che, sebbene fosse insignificante in Galatina, era invece di gran prestigio a Roma, dove visse a lungo.  Tra coloro che sostengono questa tesi c’è anche l’orientalista Giuseppe Gabrieli (1872-1942) di Calimera (LE).

   La data di nascita di Pietro Galatino, prima variamente indicata dai biografi, è stato poi possibile fissarla con sufficiente approssimazione al 1460, in quanto egli nel dedicare intorno al 1539 una sua opera al vescovo di Nicastro (CZ) dichiarava di avere 79 anni, e sottraendo il numero 79  da 1539 si ottiene appunto 1460.

    Giovanissimo prese l’abito francescano dei Frati Minori nel Convento di  Santa Caterina, fondato in Galatina da  Raimondello  del Balzo Orsini alla fine del XIV secolo. Ivi rimase almeno fino al 1480, infatti a proposito dell’eccidio di Otranto, che avvenne in quell’anno, in un suo scritto dichiarò: “…Pauca referam, quae oculis   vidi… . ” […Riferirò le poche cose che vidi con i (miei) occhi… .]. Ma non molto tempo dopo i suoi superiori, per l’eccezionale intelligenza e per la ferma volontà di proseguire gli studi da lui dimostrate, lo mandarono a Roma, dove rimase per quasi tutta la vita, allontanandosene solo per non lunghi periodi.

   Infatti nel 1492 fu a Taranto, dove potette osservare il testo della profezia di San Cataldo; a gennaio del 1506 fu a Napoli per fare omaggio al re Ferdinando il Cattolico della sua opera “De optimi principis diademate” con la seguente dedica: “ Prego dunque che la tua maestà si degni di accettare il mio piccolo dono con volto benevolo (come è tua abitudine) e che consideri affidati alla tua benevolenza me, il mio Ordine del quale sei molto devoto, la stessa mia patria(*) e tutto questo regno”.

   Dimorò a Bari, in qualità di Ministro dei Frati Minori della “Provincia Apulia”, intitolata a San Nicola, nell’ultima fase unitaria dell’Ordine minoritico, cioè prima che papa Leone X, successore di Giulio II, separasse con la bolla “Ite vos” (29 maggio 1517) i Frati Minori Osservanti dai Frati Minori Conventuali.

   Dal 1536 al 1539 fu ancora Ministro provinciale dei Frati Minori Osservanti.

   Il Galatino, stando a Roma, alla perfetta conoscenza del latino e del greco aggiunse quella della lingua ebraica, in cui acquistò una tale pratica da essere creduto egli stesso un ebreo convertito. Studiò anche l’etiopico con Giovanni Potken.

   Per questa larga conoscenza delle lingue si congratularono con lui da una parte l’imperatore Massimiliano I, fautore dello studio delle lingue orientali per la propaganda della fede, dall’altra l’arcivescovo titolare di Nazaret Giorgio de Salviatis. Della stessa conoscenza egli si servì per l’interpretazione dei sacri testi.

  Tuttavia, frequentando il circolo romano che si raccoglieva intorno al cardinale Egidio Canisio da Viterbo, apprese anche la cabala, cioè la divinazione del futuro a mezzo di lettere, numeri, figure o sogni, appassionandosene tanto da non sapersi più sottrarre all'influsso delle preoccupazioni criptografiche che essa gli suggeriva.

   E’ probabile che il Galatino abbia esercitato il magistero di Teologia e di lingua greca. Mentre è  certo che egli abbia tenuto l’ufficio di Penitenziere apostolico della Basilica di S. Pietro e che sia stato cappellano prima del Cardinale Lorenzo Puccio e dal 1531 del cardinale Francesco Quinones.

Questa preminente posizione in Roma gli consentì di contrarre autorevoli amicizie. In particolare entrò in relazione con i pontefici Leone X e Paolo III, dei quali fu anche commensale, e fu in corrispondenza, oltre che con l’imperatore Massimiliano I  e il re Ferdinando il Cattolico, con Carlo V , Enrico VIII d’Inghilterra e con i più celebri umanisti del suo tempo.

    Il Galatino ebbe in vita grandissima fama come teologo, filosofo, esegeta, tanto da essere esaltato in versi latini ed ebraici, e il noto  grecista tedesco Giovanni Reuchlin lo salutava “doctissime ac disertissime, gemma ordinis Minorum”.

Tale fama declinò, però, dopo la sua morte che avvenne probabilmente nel 1540, in quanto sappiamo che lasciò incompleto il trattato De vera Theologia, al quale lavorava in anni successivi al 1536, mentre Luca Wadding, storico dell’Ordine francescano, riferendosi all’anno 1539 afferma: “vivebat in hoc anno in senili iam aetate frater Petrus”.

Quindi egli morì all’età di circa ottanta anni e fu sepolto nella chiesa di  Aracoeli in Roma, dove volle che fossero custoditi i suoi manoscritti, che tuttavia furono poi trasferiti nella Biblioteca Vaticana.

    Anche sulla sua immagine non è mancata l’incertezza, giacché è da ritenere del tutto fantastico il ritratto riportato nel libro del De Angelis. Mentre è accettabile la seguente descrizione che ne fa A. T. Arcudi: “Fu Pietro Colonna di bell’aspetto, pallido, e femminile, di faccia pienotta, e alquanto tonda, come appare dal suo ritratto, ch’io tengo in rame.” Questa immagine (senza tener conto del riferimento al ritratto in rame, che nessuno ha visto o può vedere) corrisponde in tutti i lineamenti alla miniatura del viso del francescano, che si trova in una Q iniziale sulla copertina dell’unico suo libro stampato nel 1518, il De arcanis catholicae veritatis, del quale una copia era nel Convento S. Caterina e ora si trova nella Biblioteca “P. Siciliani” di Galatina, mentre altre copie sono a Basilea, Francoforte e Parigi.

    A conclusione della presente breve biografia di Pietro Galatino c’è da rilevare che  nei suoi numerosi scritti, oltre al già citato riferimento all’eccidio di Otranto, non ci sono notizie relative agli avvenimenti del suo tempo. Ciò risulta veramente singolare, ove si consideri tanto l’importanza dei fatti di cui sarebbe stato informato o addirittura spettatore (basti per tutti il celebre sacco di Roma del 6 maggio 1527 ad opera dei lanzichenecchi), quanto la sua grande amicizia con personaggi che all’epoca erano di prim’ordine.

Pietro Congedo

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(*) Non è da escludere che con tale omaggio il Galatino abbia voluto richiamare la benevola attenzione del sovrano spagnolo sui problemi della Comunità francescana di Galatina, che aveva perduto il Convento S. Caterina, in quanto a suo tempo il re Alfonso II d’Aragona lo aveva donato insieme all’Ospedale e al relativo patrimonio all’Ordine Olivetano. Perciò era in corso da anni una penosa lite fra i due Ordini.
Comunque è certo che in maniera inaspettata sia entrato in scena, inviato (forse su preghiera di re Ferdinando il Cattolico) da papa Giulio II, il  cardinale Giovanni Antonio di San Giorgio, vescovo di Frascati che riuscì a mettere d’accordo gli olivetani con i francescani. Infatti, con atto notarle del 1° giugno 1507, i primi, conservando l’Ospedale di Galatina e il suo patrimonio, cedettero ai secondi il Convento S. Caterina e il giardino detto ‘Parco’.