martedì 30 ottobre 2012

I cento anni dell'illuminazione pubblica di Galatina


Nel 1°giorno di primavera di 100 anni fa (domenica, 21 aprile 1912), nell'oscurità serale e notturna di piazze, strade e vicoli di Galatina, divenuta totale in seguito alla rimozione dei lumi a petrolio, brillarono per la prima volta:
• 12 lampade ad arco da 10 amperè, accese in media 4 ore per sera;
• 68 lampade ad incandescenza a filamento metallico da 25 candele, accese tutta la notte;
• 12 lampade ad incandescenza a filamento metallico da 16 candele, accese dallo spegnimento degli archi allo spegnimento generale;
• 150 lampade ad incandescenza a filamento metallico da 16 candele, accese tutta la notte.

L'illuminazione elettrica della Città era divenuta realtà grazie alla lungimiranza e al costante e generoso impegno di un'esemplare Amministrazione Comunale (A.C.), eletta nell'estate del 1909 e presieduta dal Prosindaco ing. Antonio Vallone. Questi (che, tra la fine del secolo XIX e l'inizio del XX, aveva già fatto parte dell'A.C. e successivamente, dal 1901 al 1909 era stato Deputato al Parlamento del Regno d'Italia) il 13 marzo 1910 aveva costituito insieme ad altri 36 cittadini, tra i quali c'erano anche assessori e consiglieri comunali, una Società Anonima denominata Società Galatinese per Imprese Elettriche.

Scopo di questa Società era la produzione, la distribuzione e l'appplicazione dell'energia elettrica, nonché la vendita della stessa per qualsiasi uso, la costruzione e l'esercizio di impianti elettrici ed in generale le operazioni relative all'industria dell'elettricità in tutte le sue manifestazioni.
Il capitale sociale di lire 75.000 (settantacinquemila), costituito da n.150 (centocinquanta) azioni di lire 500 (cinquecento) ciascuna, era già stato interamente sottoscritto da n.40 azionisti.

Il testo del contratto col quale l'Amministrazione Comunale aveva concesso alla suddetta Società il servizio d'illuminazione pubblica e il diritto di poter fornire l'energia elettrica a privati, sia per illuminazione che per forza motrice, era stato pubblicato in un opuscolo di n.23 pagine, fatto stampare nel 1910 dalla Tipografia Mariano, col titolo: "Capitolato per l'impianto e l'esercizio dell'Illuminazione Elettrica nel Comune di Galatina". Questo constava di ben 37 articoli nei quali, oltre al numero ed alla tipologia delle sopraindicate lampade, da installare nelle vie e nelle piazze (v. art. 5), fra l'altro, si stabiliva:

• la durata della concessione in 29 anni (art.2), dopo i quali il Comune sarebbe diventato proprietario di: "corpi illuninanti, bracci e colonne di sostegno, fino alle valvole"; inoltre avrebbe avuto il diritto di "acquistare l'officina e tutto l'impianto "(art. 4);
• l'obbligo per la società concessionaria di sostituire le lampade ad incandescenza la cui intensità luminosa fosse diminuita del 20% (art.7);
• la forza motrice per l'apparecchiatura elettrogena veniva prodotta da "motori ad olio pesante", l'impianto doveva essere a corrente alternata trifase e la rete dei fili conduttori aerea, salvo la conduttura sotterranea per le lampade ad arco al centro di Piazza Alighieri (art. 10);
• tutto il materiale già esistente per la pubblica illuminazione a petrolio veniva ceduto dal Comune alla Concessionaria, la quale poteva, quindi, adibire mensole e colonnine per le lampade ad incandescenza, mentre il medesimo Comune, oltre a provvedere a sue spese all'adattamento delle stesse e all'eventuale acquisto di altre mensole, doveva fornire le colonne metalliche per le lampade ad arco (art. 11);
• l'accensione di tutte le lampade pubbliche doveva avvenire esattamente nell'ora indicata da una tabella oraria, approvata dall'A.C., con riferimento all'orario indicato dall'orologio pubblico, "il quale serviva di norma e controllo, ed in difetto, dall'orologio della stazione ferroviaria" (art. 15);
• in corrispettivo del servizio di pubblica illuminazione il Comune doveva pagare alla Società concessionaria la somma annua di lire 10.000, dalla quale sarebbe stato trattenuto l'annuo canone di lire 2.000 per l'occupazione di suolo pubblico (art. 16);
• il contributo fisso annuo di lire 8.000 doveva essere pagato dall'A.C. a rate mensili posticipate e, in caso di mora, qualora il credito della Società verso il Comune avesse superato l'importo di lire 4.000, la prima aveva la facoltà di sospendere il servizio d'illuminazione pubblico, senza perdere i diritti relativi alla concessione in corso (art. 17);
• la Concessionaria poteva fornire a privati, compatibilmente con le potenzialità del proprio impianto, l'energia elettrica per luce, forza motrice, riscaldamento o altri usi, al costo di lire 0,60 per kilovattora, escluso il nolo del contatore e le tasse o dazi gravanti l'energia; la fornitura di energia al Comune per illuminazione e per forza motrice (esclusa beninteso l'illuminazione stradale) avveniva alle stesse condizioni adottate per i privati (art. 22);
• tutti i materiali, impiegati dalla Concessionaria tanto per l'impianto quanto per l'esercizio, erano esenti da qualsiasi tassa o dazio comunale esistente o che potesse essere stabilito in seguito e, se lo Stato avesse tassato il consumo di energia per illuminazione pubblica, tale aggravio sarebbe andato a carico del Comune (art. 23);
• l'impianto doveva inprorogabilmente andare in esercizio sette mesi dopo l'approvazione definitiva del contratto (art. 35).

In data 25 marzo 1912 il Prosindaco A. Vallone cosi telegrafò al R. Prefetto di Lecce:

"Pregola provvedere con la maggiore possibile sollecitudine autorizzazione esercizio società galatinese imprese elettriche e approvazione capitolato illuminazione elettrica, avendo società già provveduto impianto e potendosi inaugurare la luce. Ulteriore ritardo potrebbe turbare ordine pubblico.
f.to Prosindaco Vallone"

Il primo cittadino di Galatina giustamente temeva un possibile turbamento dell'ordine pubblico. Infatti per realizzare l'impianto elettrico, utilizzando parte del vecchio materiale d'illuminazione a petrolio, era rimasta al buio buona parte della città e, quindi, montava il malcontento della popolazione.

Pertanto egli, avendo avuto il 28 marzo dal Prefetto assicurazione telegrafica che era in corso il decreto di autorizzazione della Concessionaria e che il sopraccitato Capitolato sarebbe stato discusso dal Consiglio di Prefettura nella tornata del 1° aprile, decise, rompendo gl'indugi, che l'illuminazione pubblica sarebbe stata inaugurata il successivo 21 aprile.

Questa decisione, assunta con determinazione e personale responsabiltà da Antonio Vallone, contribuì veramente ad evitare turbamenti dell'ordine pubblico, in quanto l'approvazione del Capitolato in questione divenne definitiva solo alla fine dell'anno 1912, dopo il superamento di impreviste lungaggini burocratiche.


Pietro Congedo

[1] Nel 1909, dopo le elezioni amministrative, il nuovo Consiglio Comunale si riunì per eleggere il Sindaco e la Giunta Municipale, ma fu subito necessario rimandare a data da destinarsi la nomina del primo cittadino, poiché la relativa votazione diede il seguente risultato: presenti e votanti n. 23, schede bianche n. 23. Invece fu regolarmente eletta la Giunta nelle persone di Antonio Vallone (voti 22), M. Micheli (v. 20), A. Romano (v. 19), G. Galluccio (v.19).
Il Consiglio Comunale non tornò più a riunirsi per eleggere il Sindaco, infatti l’Assessore anziano, A. Vallone, ne esercitò le funzioni per cinque anni, in qualità di Prosindaco.


[2] V. Atto notarile n. 69, redatto dal notaio Marino De Riccardis in data 13 marzo 1910.

venerdì 5 ottobre 2012

L'icona del Crocefisso nella Chiesa dei primi secoli


 
 
Premessa

La croce, strumento di tortura e di morte, era composta di due legni, uno verticale (stipes) e uno orizzontale (patibulum), su cui si legavano o inchiodavano i condannati.

Il supplizio della croce, detto crocifissione, consisteva infatti nell’issare sul palo verticale, conficcato nel terreno, il condannato con le braccia legate al patibulum passato dietro la schiena.

La crocifissione fu in uso presso antichi popoli, come i Persiani e i Cartaginesi. Essa è menzionata dal poeta e storico latino Quinto Ennio (239-169 a. C.) e fu introdotta a Roma durante le guerre puniche, come il più scandaloso e infamante dei supplizi. Infatti nel periodo repubblicano fu usata per l’esecuzione capitale degli schiavi e successivamente, cioè nel periodo imperiale, anche per dare la morte a disertori, briganti, sobillatori di rivolte, ecc., specialmente nelle Province dell’Impero.

La condanna alla crocifissione di un cittadino romano era però considerata grave offesa al diritto.

Ponzio Pilato, governatore romano della Palestina, condannò Gesù Cristo alla crocifissione come se fosse un volgare sobillatore ebreo, che si autoproclamava re del popolo a cui apparteneva.

Nei primi secoli del Cristianesimo l’immagine del Cristo  crocifisso non fu per niente presente nella iconografia, nel culto e nella liturgia. Ciò si spiega col fatto che il simbolo del supplizio riservato ai più indegni malfattori richiamava alla mente un istintivo orrore che solo un evento eccezionale, unito alla fede, poteva trasformare in venerazione.

 I primi cristiani evocavano il mistero della Redenzione con altri simboli quali, per esempio, il pesce, l’agnello, l’ancora, i pani, la colomba, ecc.. Ciò si può constatare nelle catacombe, dove sono frequentissimi detti simboli, mentre la croce è raramente graffita o dipinta.                                                

Inoltre non è da escludere che a tener lontani i cristiani dal culto della croce contribuisse anche l’accusa di idolatria rivolta loro da ebrei e pagani.

Ma la visione avuta dall’imperatore Costantino durante la battaglia di Ponte Milvio (312 d.C.), l’aver egli impresso il segno della croce sul labaro, sugli scudi dei soldati e sulle monete, nonché il ritrovamento (inventio)[1] della vera croce di Cristo, rimasta sepolta sotto il tempio di Venere, fatto erigere sul Calvario dall’imperatore Adriano, e il diffondersi delle reliquie della stessa nel mondo cristiano da un lato concorsero all’affermarsi nell’iconografia cristiana del segno della croce, dall’altro diedero al culto privato e pubblico della crocifissione di Gesù un rapido sviluppo.

Per quanto riguarda l’iconografia occidentale le prime opere conservate, in cui compare la crocifissione di Cristo nel suo realismo, risalgono al V sec. dopo Cristo. Tuttavia ancora nella prima metà del VI sec. a Ravenna nell’amplissimo ciclo di mosaici di S. Apollinare Nuovo manca tra le scene della Passione la principale: il Cristo in croce.

La più antica immagine esplicita della Crocifissione che finora si conosca è quella intagliata nel legno della famosa porta di S. Sabina sull’Aventino, costruita al tempo di Papa Celestino I (422-432) da un prete dell’Illiria di nome Pietro.

Della stessa epoca è la Crocifissione incisa su una tavoletta d’avorio , che è conservata a Londra nel British Museum, nella quale il Cristo è rappresentato vivo, quasi ignudo, con alla sinistra un soldato nell’atto di colpirlo con la lancia e alla destra Maria SS. e il discepolo Giovanni.

Analoga scena è riprodotta con vivace realismo in una miniatura dell’Evangelario cosiddetto di Rabbuia, conservato nella Biblioteca Laurentiana di Firenze, risalente al VI secolo.

Anche nella Crocifissione rappresentata in un affresco dell’VIII sec., che trovasi a Roma nella Chiesa di S. Maria Antiqua, il Cristo è vivente, ma vestito con una lunga tunica senza maniche (colobium); a sinistra della croce ci sono Maria SS. e il soldato romano con la lancia, a destra S. Giovanni evangelista e la guardia giudea con la canna.

La rappresentazione di Cristo sulla croce in posizione eretta e con gli occhi aperti, quale vivo, era arrivata in Occidente dalla Siria e dalla Cappadocia, passando per Bisanzio. Essa stava a significare che Gesù è il Signore (Christus triunfans ) e che Egli, come insegna suggestivamente S. Giovanni Crisostomo, ha liberamente accettato la sua morte : “… la fine sopravvenne  quando Egli lo volle ed Egli lo volle quando tutto fu compiuto. Egli non inclinò la testa quando fu spirato, come avviene per noi, ma quando inclinò la testa, allora spirò…”.

Raffigurare sulla croce il Figlio di Dio incarnato nel primo millennio aveva anche valore d’insegnamento dogmatico: significava, infatti, attestare contro le eresie docetiste[2] che Egli era un vero uomo e aveva realmente sofferto la passione. Ma, poiché il suo corpo non doveva subire la corruzione, rimase a lungo il riserbo di raffigurarlo morto, con gli occhi chiusi.

Una stupenda immagine del Christus triunfans ( cioè in posizione eretta, gli occhi aperti, ecc.) è il cosiddetto Crocifisso di S. Damiano, conservato nella Basilica di S. Chiara in Assisi.

Si racconta che nell’estate del 1205 S. Francesco, mentre in un oratorio della campagna di Assisi, dedicato a S. Damiano, pregava dinanzi a detto Crocifisso, dipinto su tavola, udì una voce che gli diceva : “vade, Francisce, et repara domum meam” (va, Francesco, e ripara la mia casa).

Si tratta di un’icona bizantina di carattere liturgico, che merita un’attenta lettura, poiché con essa l’anonimo monaco siriano , che l’ha dipinta nel XII secolo, ha inteso guidare alla meditazione del mistero della Passione, realizzando un meraviglioso compendio pittorico che interpreta fedelmente la S. Scrittura

Sul piano storico c’è però da osservare che il Crocifisso di S. Damiano è stato dipinto secondo i canoni iconografici in voga nel primo millennio ( posizione eretta , occhi aperti, ecc.), mentre già all’inizio del secondo millennio, sull’onda emotiva della compassione, si andava diffondendo nella cristianità, prima in Oriente e poi in Occidente, il criterio di rappresentare Gesù Crocifisso con gli occhi chiusi, il busto contorto, le gambe ripiegate, le braccia stirate a forza, il capo abbandonato sulla spalla destra ovvero reclinato e cadente: Christus patiens.

Tuttavia nell’area ortodossa , malgrado questo cambiamento di fondo, la scena della Crocifissione rimase sempre immersa in un’atmosfera di grande nobiltà, dove il sentimento del dolore lascia sempre il posto alla contemplazione del mistero. Ciò è chiaramente attestato da numerose icone orientali dei primi secoli del secondo millennio. Particolarmente significativa è l’attestazione fornita da un’icona della Scuola di Mosca, risalente alla fine del  ‘300 , la quale sarà anch’essa oggetto di attenta lettura.

Prima, però, d’iniziare l’esame dei suddetti due dipinti è forse opportuno rammentare che i cristiani d’Oriente guardano alle icone con gli occhi della fede, perché le considerano immagini dell’Invisibile.

 Noi occidentali, invece, siamo portati a considerare tutti i dipinti, anche quelli di carattere religioso, sotto l’aspetto estetico, valutandone l’espressività e la capacità di suscitare emozioni, di rapire gli animi. L’icona, invece, deve essere letta e contemplata, perché tende a rivelare il mistero profondo dell’essere.

                                  

    Il Crocifisso di S. Damiano                                                                                                                                                                               

Il Crocifisso di S. Damiano è un’icona che ci parla del mistero della Passione di Gesù  con il linguaggio dell’evangelista Giovanni e talvolta anche con quello dell’apostolo Paolo.

Nel IV Vangelo è descritta la lotta tra la luce e le tenebre (Gv. 1,5) e nell’icona si può contemplare il risultato finale di tale lotta: il corpo vittorioso di Gesù appare tanto più luminoso in quanto risalta su un fondo nero, simbolo delle tenebre, dell’opposizione alla luce, dell’incredulità, del peccato; altro colore dominante è il rosso, simbolo dell’amore, che inquadra tutta l’icona, presentandola come luogo drammatico della vittoria della luce  e  dell’amore sulle tenebre.

L’inquadratura, formata da una moltitudine di conchiglie, indica che  l’icona è destinata a rivelare un mistero celeste. Infatti le conchiglie, per la loro bellezza ed incorruttibilità, erano per gli antichi simbolo dell’eternità divina. L’inquadratura, però, non è chiusa alla base e lo spazio libero costituisce una sorta di entrata. I personaggi appena distinguibili  che si trovano su di essa sono Santi. Di essi è visibile solo la parte superiore del corpo: ciò significa che con la parte superiore del loro essere, cioè con la loro anima, sono entrati nella dimora celeste. Quindi l’icona rappresenta il Regno di Dio, nel quale introduce la Fede. Il Cristo in croce è, come già detto, vivente con sulla sua testa non una corona di spine, ma una corona di gloria, nella quale, però, sono presenti le linee della croce. .

L’iconografo, nel dipingere il volto di Gesù con la corona di gloria, ha sicuramente tenuto presente il cosiddetto Acheròpita, cioè l’icona riproducente il volto di Cristo sullo sfondo di un nimbo crociato, che, secondo una leggenda non sarebbe stata dipinta da mano d’uomo e riprodurrebbe le vere sembianze di Gesù impresse su una tela.

Ma, leggenda a parte, l’origine dell’Acheròpita potrebbe essere collegata all’ostensione della sacra Sindone a Costantinopoli (678 – 766).

La veste di Gesù è un perizoma di lino orlato d’oro. Il lino e l’oro erano usati per le vesti sacerdotali.

La posizione verticale di Gesù sta a significare che Egli è asse del mondo e le sue braccia, inchiodate sul patibulum esprimono un gesto di accoglienza: sono aperte per abbracciare l’universo.

Il Cristo è circondato da 33 personaggi che sono il simbolo della Comunione dei Santi di ogni tempo.

Gesù, con i piedi su fondo nero, sembra risalire dagli inferi.

Il suo volto, il suo collo e anche la corona di gloria sono leggermente velati: il loro splendore è oscurato da un’ombra, rappresentante la vera umanità del Redentore  del mondo.

Sulla fronte del Crocifisso si può distinguere la colomba raffigurante lo Spirito Santo disceso su Gesù battezzato da Giovanni.

Gli occhi del Cristo sono bene aperti e ce lo indicano come il vivente per eccellenza. Essi sono anche molto grandi, smisuratamente grandi, perché Egli è il vedente, cioè l’unico che vede il Padre (Gv. 6, 46), perché sempre rivolto a Lui (Gv 1,18).     

Lo sguardo grave, ma sereno, è rivolto fra cielo e terra: grave perché Gesù è pienamente cosciente dell’importanza del dramma di cui è al centro; sereno perché sa che le “porte degli inferi non prevarranno contro la Chiesa” (Mt 16, 18), ma soprattutto perché può presentarsi al Padre dicendo: “Ecco, vengo, ho fatto la tua volontà”.

Rivolto fra cielo e terra, perché Egli è il mediatore (Eb 8.6) tra il Padre (che è in cielo) e gli uomini (che  sono sulla terra). Il nostro sguardo non  può incrociarsi con quello del Crocifisso: Egli vede più lontano, al di là di noi, e ci invita a guardare verso il Padre, cioè ci invita alla conversione.  

Dopo la resurrezione Gesù apparve ai suoi discepoli e soffiò su di loro dicendo: “Ricevete lo Spitito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi…” (Gv 20,22).

L’icona ci presenta il Cristo con il collo gonfio proprio per rammentarci che Egli soffia lo Spirito anche su di noi.

Le piaghe delle mani, dei piedi e del costato riversano il sangue dell’Agnello di Dio sui personaggi

che sono sotto le braccia e sotto i piedi. E’ il sangue della nuova alleanza che, come dice S. Paolo, “ci procura una redenzione eterna… (in quanto Cristo), che con Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza delle opere di morte per servire il Dio vivente (Eb 9, 12-14).

In ciascuna delle estremità dell’asse trasversale della croce tre Angeli, messaggeri della parola di Dio, fissano lo sguardo sulle mani di Gesù, esprimendo stupore dinanzi allo spettacolo del sangue sparso dall’unico Figlio di Dio. 

I personaggi sotto le braccia del Crocifisso, dei quali si possono leggere i nomi sritti sotto i loro piedi, sono (da sinistra a destra) Maria, Giovanni, Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo e il centurione romano.    

Essi sono tanto vicini a Gesù, perché si è adempiuta la sua ardente preghiera: “Padre, voglio che quelli che tu mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato” (Gv 17, 24).

Inoltre sono tutti immersi nella luce, poiché sono diventati “figli della luce”(Gv 12, 36), e hanno tutti la stessa statura, in quanto per essi si è compiuta la parola di Paolo: “… finchè arriviamo tutti…allo stato di uomo perfetto…”(Ef  4. 13).  

Essi si somigliano, avendo gli stessi lineamenti del Crocifisso: occhi grandi, bocca piccola e viso ovale. In questo risuona ancora la parola di Paolo: ”Quelli che Dio ha sempre conosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo…” (Rm 8, 29).

Maria e Giovanni sono alla destra del Crocifisso, al posto d’onore, e sembrano ricordare le parole di Gesù :“Donna, ecco tuo figlio” (Gv 19,26). Cristo è leggermente rivolto verso di loro.

Giovanni, che riceve il sangue direttamente dal costato, guarda nella stessa direzione del Maestro. Il volto di  Maria  è maternamente inclinato  verso il Figlio. La sua mano sinistra sotto il mento esprime la sua ammirazione davanti al mistero di Gesù vivente in Giovanni. Nel momento della prova, dinanzi al Figlio crocifisso, il volto di Maria è stupito, ma sereno: ha già la luce del Risorto negli occhi di pianto.

La Madonna indossa un mantello bianco, segno della purificazione portata da Cristo. Sul mantello sono dipinte numerose pietre preziose che simboleggiano i doni dello Spirito Santo. Sotto il mantello ha un vestito di colore rosso scuro, simbolo dell’amore. Infine la sua tunica è viola, il colore della stoffa con cui era foderata l’Arca dell’Alleanza: è Maria la vera Arca dell’Alleanza. Il suo volto è bellissimo, perché in esso si riflette la divinità di Gesù.   

Giovanni, “il discepolo che Egli amava” (Gv 19, 26), è nell’atteggiamento di colui che si sa amato e che accoglie questo amore. La sua mano destra e quella di Maria sono dirette verso Gesù, oggetto del loro amore e della loro adorazione.

La tunica bianca di Giovanni sta ad indicare la vittoria di lui sulla carne, la castità perfetta che lo ha reso meritevole di accogliere la sapienza “…che non abita in un corpo schiavo del peccato” (Sap 1, 4); il colore rosa antico del mantello indica appunto il suo amore per la sapienza eterna.

A sinistra del Crocifisso ci sono Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e il centurione romano che conandava i soldati e le guardie incaricati dell’esecuzione.

La vicinanza delle due donne a Gesù sta ad indicare che esse, oltre ad essere state al suo seguito per servirlo (Lc 8, 2), sono state sul Golgota presso la Croce insieme a sua Madre e a Giovanni (Gv 19, 25).

Il centurione romano guarda Gesù e con la mano destra alzata ne afferma la divinità dicendo: “…veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15, 39). Egli rappresenta la moltitudine di persone che, pur essendo cresciute senza conoscere Dio e Gesù, sono state fedeli alle ispirazioni dello Spirito Santo.

Al disopra della spalla del centurione si notano il viso del committente dell’icona e, dietro di lui, in prospettiva tre teste che evocano il popolo di Dio.

I due personaggi di dimensioni ridotte che sono accanto a Maria e al centurione rappresentano i romani e gli ebrei incaricati dell’esecuzione. A destra è il soldato romano, che con la lancia colpì il costato di Gesù, e alla sinistra è la guardia giudea, che gli porse la spugna imbevuta di aceto, realizzando così incosciamente la predizione del salmista: “…quando avevo sete mi hanno dato aceto” (sal 69, 22). Entrambi hanno il ginocchio levato, la mano sul fianco e lo sguardo rivolto a Gesù. Ciò sta a significare che hanno avuto lo stesso ruolo, cioè la responsabilità della morte di Gesù ricade ugualmente sui pagani e sugli ebrei. Tuttavia la loro modesta statura sta ad indicare che il loro ruolo è stato modesto: agli occhi degli uomini è parso che abbiano ucciso Gesù, ma in realtà “…nessuno ha tolto a lui la vita, perché Egli l’ha offerta da se stesso” (Gv 10, 18).

Gli uomini hanno fatto di tutto per infierire contro Gesù, per flagellarlo, per crocifiggerlo, per ucciderlo, ma sono riusciti solo a glorificarlo. Comunque i due hanno gli occhi rivolti al Crocifisso, come sta scritto: “volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto” (Gv 19, 37).  

A sinistra delle gambe del Crocifisso è Dipinto un gallo, simbolo do sole nascente. Questo sole è Gesù stesso, la vera luce che si diffonde sul mondo.

Al di sopra della corona di gloria c’è la scritta: “Gesù Nazareno, Re dei Giudei”. Il queste parole è il mistero della vita di Gesù. Il profondo abbassamento viene affermato dall’appartenenza al villaggio più disprezzato: “…da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?”(Gv 1, 46).

La sua glorificazione è proclamata con la proclamazione ufficiale della sua regalità.

Al di sopra della scritta vi è un cerchio nel quale, su fondo rosso, è dipinto il Cristo in ascensione, rivestito di un abito bianco e di una sciarpa dorata, con in mano una croce luminosa, segno di vitttoria sulla morte e “scettro della sua giustizia, uno scettro regale” (Sl 45, 7).                  Il Risorto sfugge alla finitezza della morte per entrare nella pienezza della gloria del Padre. 

Il cerchio è simbolo di perfezione, ma il suo contorno è superato dalla testa e dalla mano destra del Risorto: Gesù Cristo è perfezione delle perfezioni. Egli entra vivo con il suo corpo nell’eternità e l’ampio sorriso, che illumina il Suo volto, conferma che Egli è stato “…unto con l’olio dell’esultanza” (Sal 45, 8), come canta il salmista. Finalmente la Sua prova è finita ed Egli ne è uscito vincitore!

I 10 Angeli che lo accolgono sono vestiti di rosso e d’oro. Essi hanno visto il Figlio uscire dalla casa del Padre e venire al mondo, lo festeggiano trionfalmente, mentre ritorna al Padre (Gv 16, 28), e sembrano cantare come a Bettlemme: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama” (Lc 2, 14).

La mano del Padre occupa lo spazio più alto della croce. Essa è inserita nella metà inferiore di un cerchio, del quale non si vede la metà superiore: nessun occhio umano ha visto mai il Padre che, però, si rivela nella benedizione, la quale altro non è che il dono dello Spirito, meritato per effetto della morte di Gesù, il quale ha detto: “ E’ bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò” (Gv 16, 7).

Dinanzi a questa meravigliosa icona possiamo ben dire che il pennello dell’anonimo pio autore, guidato dalle antiche tradizioni della Chiesa, ha reso visibile la glorificazione di Gesù implicita nella sua passione. In essa sull’annuncio della morte prevale nettamente la proclamazione della resurrezione del Figlio di Dio.

Meditando sul significato dei colori, delle forme e dei simboli usati dall’iconografo e sulla maniera da lui seguita nel rappresentare i personaggi, viene spontanea l’affermazione:

 “ il Risorto è il Crocifisso”.

 

    Dal Christus triunphans al Christus patiens


Il Crocifisso di S. Damiano, appartenente al genere iconografico del Christus triunphans fu dipinto, come detto in precedenza, nel XII secolo, quando già in Occidente e anche in Italia si andava diffondendo la raffigurazione del Christus patiens, ideata in Oriente sull’onda emotiva della compassione.

Il Crocifisso dipinto da Giunta Pisano intorno al 1230, conservato nel Museo della Porziuncola in S. Maria degli Angeli, viene indicato come una delle più antiche raffigurazioni occidentali del Christus patiens, cioè col corpo pendente dal legno della croce, che disegna una morbida curva, col capo reclinato sulla spalla destra e gli occhi chiusi nel sonno della morte.

E’ un’opera validissima dal punto di vista estetico e veramente capace di suscitare dolore e commozione in chi la osserva. Ma, ai fini della contemplazione del mistero della Passione, non ha la stessa efficacia delle analoghe immagini realizzate nello stesso periodo nella Chiesa ortodossa.

Tra il 1265 e il 1268, Cimabue, realizzando il Crocifisso per la Chiesa di S. Domenico in Arezzo, segue la strada già battuta da Giunta Pisano con l’intento d commuovere, strappare lacrime di contrizione. Perciò tende ad esasperare le maniere orientali, servendosi dei modi di comunicazione correnti, che carica di una tensione passionale nuova. Ottiene così un plasticismo di esasperante bellezza.

Nel Crocifisso dipinto da Giotto intorno al 1300 per la Chiesa di S. Maria Novella in Firenze il distacco dalla tradizione bizantina risulta evidente per la posizione non forzata del corpo di Gesù, per i lineamenti delicati delle figure, per la semplicità del perizoma e la sovrapposizione dei due piedi, fissati con un unico chiodo.

Il corpo del Cristo è rigorosamente fondato su una strutturazione geometrica che evita al massimo le linee curve. Eppure l’effetto è di un’estrema morbidezza, anche in virtù dei colori  usati.  

Il dipinto fu eseguito per essere appeso ad un pontile a metà della Chiesa, perciò le braccia di Gesù, tese ai chiodi della croce, sono state rappresentate in prospettiva per essere viste dal basso: il fedele, passando sotto il pontile e guardando in alto, doveva avere l’impressione quasi di un corpo reale, appeso sopra di lui con le palme lacerate rivolte verso terra, quasi a farvi colare le gocce di sangue.

Sotto il pennello di Giotto è l’umano che si divinizza, in quanto avviene un trasferimanto dalla sfera dell’emozione a quella sella certezza razionale. Ciò è evidente non solo nella figura di Cristo, che pende verticalmente appena sorretta dalle braccia, senza inarcarsi in un macabro spasimo, ma anche nelle figure di Maria e Giovanni, nelle quali ogni gesto di angoscia è sostituito dall’atteggiamento stoico di chi, stringendo le mani l’una con l’altra per frenare ogni gesto convulso, domina il dolore con consapevolezza filosofica.

      

         Il Crocifisso della Scuola di Mosca

L’icona della Scuola di Mosca, risalente alla fine del ‘300 e conservata nel Museo A. Rublev di Mosca, è posteriore alle opere di Cimabue e di Giotto, ma in essa sono pienamente presenti gli elementi iconografici caratteristici della tradizione orientale e bizantina, tendenti a suscitare commozione, ma nello stesso tempo capaci di stimolare alla contemplazione del mistero della Passione.

In essa la croce, saldamente piantata nel cono pietroso raffigurante il Golgota, svetta verso il cielo come per riunire alle cose celesti ciò che è sulla terra e nel mondo degli inferi. Quest’ultimo è simboleggiato da una piccola caverna nera, posta al disotto della croce, nella quale riposa il teschio di Adamo.

Il corpo di Gesù pende dalla croce seguendo una nobile linea curva ed è coperto solo intorno al bacino da un perizoma bianco, che con l’eleganza delle sue pieghe esalta la stessa linea curva.

Gli occhi chiusi indicano la vera morte; nello stesso tempo, però, il volto inclinato verso Maria traduce piuttosto un sonno profondo, trsmettendo la verità dogmatica dell’incorruttibilità del carpo di Cristo nella morte: “La vita si è addormentata e l’inferno freme di spavento”, recita l’Ufficio del Sabato Santo.

Morto e rilassato, il Crocifisso non ha perduto nulla della sua regale nobiltà e conserva sempre la sua maestà, perciò si è portati ad esclamare con S. Giovanni Crisostomo: “Io vedo il Crocifisso e lo chiamo Re”.

Lo scrittore russo Pàvel Evdokimov, nel suo libro intitolato “Teologia della bellezza”, così scrive: “… Il Salvatore in croce non è semplicementeun Cristo morto, è il Kirios, il signore della propria morte e della propria vita. Egli non ha subito alcuna alterazione per effetto della Passione: resta il Verbo, la Vita eterna, che si consegna alla morte e la vince…”.

Pertanto si può ben dire che “la Croce è l’albero della vita, piantato sul Calvario”, come recita l’Ufficio dell’esaltazione della Croce.

D’altronde nell’icona, alla sommità della croce in una scritta, ormai scomparsa, invece della motivazione della condanna (…re dei Giudei) si leggeva: “Gesù, re della gloria”.

Lo sfondo architettonico mostra le mura di Gerusalemme, significando che Cristo ha sofferto fuori della città e, secondo S. Paolo, noi cristiani dobbiamo imitarlo “…perché non abbiamo quaggiù una citta stabile” (Eb 13, 11-14).   

Invece il chiarore del cielo sottolinea, secondo S. Atanasio, la portata cosmica della Croce, che purificò l’aria dalle potenze demoniache.

L’icona esprime la regalità di Gesù Crocifisso anche attraverso l’unico accordo cromatico ocra-bruno con cui somo trattati volumi e figure sul chiarore immateriale delle mura e del cielo. Dal canto loro i riflessi acquei della stoffa del perizoma sulle tuniche di Maria e Giovanni, sulle rocce del Golgota e sul teschio che è sotto la croce contribuiscono ad annullare ogni pesantezza.

Tra le figure esiste uno stupendo equilibrio: la lieve inclinazione della Madre si prolunga in quella del busto del Figlio, mentre il contorno arcuato dell’Apostolo compensa il vuoto creatosi; le teste dei tre personaggi sono ai vertici di un triangolo equilatero e i due angeli in alto accentuano la stabilità della struttura.

Analogo equilibrio informa anche la sfera dei sentimenti: il gesto della mano sulla guancia compiuto da Giovanni esprime insieme dolore e contemplazione, invece l’atteggiamento di Maria è quello di colei che continuamente intercede per l’umanità intera; i due angeli si velano il volto, attoniti di fronte all’incomprensibile umiliazione del Signore della Vita.

Soprattutto, però, s’impone la pace del corpo maestoso e al tempo stesso delicato del Cristo crocifisso, al quale la curva del dolore si può dire che conferisca maggiore eleganza e leggerezza.

Il sangue zampilla dal costato e scorre dalle ferite prodotte dai chiodi. Per mezzo di esso il cranio del vecchio Adamo riceve il primo lavacro della Redenzione.

Redenzione che si estende a tutto l’universo e che nella croce a tre dimensioni (asse verticale, suppedaneo e asse trasversale) trova il simbolo più totalizzante.

Croce cosmica di Cristo che abbraccia il mondo intero per ricrearlo, secondo la bellissima spiegazione di S. Ireneo:

“…Per il verbo di Dio, tutto è sotto l’influsso dell’opera redentrice, e il Figlio di Dio, mediante la sua benedizione, ha apposto il segno della sua croce su tuttele cose. E’ Lui infatti che illumina le altezze, cioè i cieli, è Lui che penetra le profondità dei luoghi inferiori, Lui che percorre sia la lunga estensione da oriente ad occidente che l’immenso spazio da nord a mezzogiorno, chiamando alla conoscenza del Padre gli uomini dispersi in ogni luogo” (v. Ireneo di Lione, Demostratio apostolica 34; SC 62, Parigi 1969, p. 87).

Riferimenti:

P. N. Evdokimov, Teologia della bellezza, Milano, 1990;
Marc Picard, L’icona del Cristo di S. Damiano, Assisi 1989;
M. Giovanna Muzj, Trasfigurazione, Edizioni Paoline, 1987. 


 

Pietro Congedo



[1] Le ricerche della vera croce di Cristo furono fortemente volute da Elena, madre di Costantino. Questi fece a sua volta collocare una croce ornata di gemme sul S. Sepolcro, nella grande basilica eretta a Gerusalemme dopo il ritrovamento della sacra reliquia. 
[2] Il docetismo è una dottrina eretica che nega la natura umana di Cristo e, di conseguenza, il suo concepimento e la sua nascita da Maria e la realtà delle sue sofferenze sulla croce.

Dalle origini delle Scuole Classiche di Galatina alla ‘regificazione’del Liceo-Ginnasio P. Colonna



      A Galatina fino al 1800,  per quanto riguarda l’istituzione di scuole pubbliche , ci furono soltanto occasioni mancate, infatti:

- dal XVI al XVIII secolo non fu presente in Città nessun Ordine Religioso che avesse la vocazione per l’insegnamento al popolo;

- fra il ‘500 e il ‘600 non si ebbero scuole parrocchiali, la cui istituzione era richiesta dalla Chiesa di Roma per contrastare le iniziative culturali delle Chiese Protestanti;

- negli ultimi anni del XVIII secolo nessuno dei sei Ordini Religiosi ( Frati Minori, Domenicani, Olivetani, Cappuccini, Carmelitani e Clarisse )  presenti in Città ottemperò alle ordinanze del 17 e del 24 aprile 1789, con le quali il governo di Ferdinando IV di Borbone aveva prescritto l’obbligo per ogni Casa Religiosa di aprire Scuole Normali o in alternativa versare il 10% delle proprie rendite alla cosiddetta Azienda dell’Educazione;

-  la volontà di destinare i propri averi all’erezione di un Istituto gestito dai Padri delle Scuole Pie, espressa dal canonico Ottavio Scalfo in un testamento del 1753, non trovò il favore di re Ferdinando IV di Borbone, il quale tramite la Regia Camera di S. Chiara nel 1776 impose, invece, l’istituzione di un Conservatorio femminile, che lo stesso testatore aveva indicata in linea subordinata.

     Finalmente, con atto notarile del 3 marzo 1801, Orazio Congedo senior destinò la rendita complessiva annua di due capitali-censi, ammontante a ducati 213,75, alla fondazione di due scuole:  una “di primella e primaseconda” (ovvero “del leggere e dello scrivere”) e l’altra “di umanità”. Questo benefattore morì nel 1804, ma la suddetta rendita forse a causa di liti e contestazioni fu disponibile solo nel 1830.  

Non si ha notizia di una eventuale istituzione, sia pure temporanea, di scuole avvenuta a Galatina   sia durante il decennale regno dei Re Napoleonidi ( 1806 – 1816 ), sia dopo la Restaurazione, cioè   quando l’Ispettorato Generale delle Scuole, creato dal Governo borbonico nel 1816, aveva disposto l’istituzione di una scuola normale maschile in ogni parrocchia con maestri preti, ispettore il parroco.

Però nel 1820 lo stesso Governo borbonico assegnò a Galatina per l’istituzione di tre Scuole secondarie i beni degli ex conventi di Andrano, Marittima e Poggiardo, che erano appartenuti alla    ex Università degli Studi di Castro, fondata nel 1796 dall’ultimo vescovo di quella Diocesi, mons. Francesco Antonio Duca, e soppressa qualche anno dopo per mancanza di docenti e perché scarsamente frequentata. I motivi di tale decisione governativa forse vanno ricercati nel fatto che la suddetta Università era fallita soprattutto perché ubicata in località scarsamente popolata ed estremamente decentrata, mentre Galatina era al centro del Sud Salento e demograficamente rilevante. Tuttavia non sono da escludere pressanti richieste degli Amministratori galatinesi dell’epoca. Comunque la sovrana volontà non trovò immediata attuazione per le proteste dello Arcivescovo di Otranto, dei Vescovi di Ugento e Gallipoli, e delle comunità di Andrano, Marittima e Poggiardo. Ma il trasferimento a Galatina della proprietà dei suddetti beni fu ribadito il 23 giugno 1823 dal Ministero degli Affari Ecclesiastici e definitivamente confermato con risoluzione sovrana  del 2 febbraio 1833. Pertanto il 12 luglio 1834 il dott. Francesco Perchia, amministratore dell’Azienda delle Scuole di Castro, consegnò alla Commissione Amministrativa delle Scuole di Galatina (costituita dal sindaco Diego Mongiò, dai deputati Giuseppe Papadia e Giacinto Leuzzi,e dall’invigilatore Orazio Congedo junior )  i beni  dei tre conventi soppressi e il saldo attivo di ducati 2.880,70 in titoli di Rendita del Debito Pubblico, custoditi presso l’Intendenza di Lecce.    

Le “Scuole secondarie” da istituire a Galatina erano tre, e precisamente di “lingua latina inferiore”, di “lingua latina superiore e retorica” e di ”matematica elementare e aritmetica”. Esse integravano bene le due “scuole primarie” volute da Orazio Congedo senior.  

L’apertura delle scuole avvenne nel 1836 a cura della suddetta Commissione, la quale doveva amministrare il patrimonio, fornire i locali scolastici e le dotazioni tecniche, occuparsi della disciplina degli alunni e degli esami, curare i rapporti con i docenti e la loro assunzione, che le norme vigenti subordinavano al parere dell’Ordinario diocesano. 

Di fronte ad una gestione delle scuole cosi complessa e gravosa, già nel 1839 l’Amministrazione Comunale fu indotta ad intavolare trattative con i Padri delle Scuole Pie, i quali presentarono un loro progetto. Ma il Comune di Galatina non fu in grado di accettarlo, poiché, mentre  avrebbe potuto assicurare ai Padri la necessaria rendita annua, non era invece in grado di fornire loro abitazione e locali scolastici con annessa Chiesa pubblica, come essi richiedevano.

Intanto, nonostante l’impegno della Commissione, col passar degli anni le scuole galatinesi “per mancanza di maestri, di cure e di metodo” entrarono in una profonda crisi, che oltre ad essere pienamente avvertita dall’utenza, fu denunciata dall’ Arcivescovo di Otranto, mons. Grande, in un memoriale del 1847, e dal R. Giudice Vincenzo Calcaterra nel 1849 in una lettera riservata inviata all’Intendente di Terra d’Otranto. 

Pertanto nel 1849 il Decurionato galatinese autorizzò il sindaco Domenico Galluccio ad “umiliar supplica per mezzo del sig. Intendente a sua Maestà” al fine di ottenere la presenza in Galatina dei Padri Barnabiti o di quelli delle Scuole Pie, ai quali affidare la direzione dell’istituzione scolastica. Analoga richiesta fu presentata nel l850 dalla Commissione Amministrativa delle Scuole alla Provincia di Terra d’Otranto.   

Con i buoni uffici dell’Intendente Sozy Carafa gli Scolopi accettarono di venire a Galatina, purché si assicurasse loro una rendita di almeno 1500 ducati e la permanenza nell’ex convento dei Padri Domenicani, da questi abbandonato nel 1807, durante la tempesta napoleonica, e diventato, dopo la restaurazione borbonica (1816), proprietà delle Suore di clausura del Monastero di S. Gregorio Armeno di Napoli, le quali a loro volta lo avevano ceduto in enfiteusi a Domenico Colaci e Vincenzo Castrioto.

Dopo aver ottenuto l’assenso reale (26 agosto 1853) ed aver adeguatamente compensato i predetti enfiteuti, il Comune di Galatina, rappresentato dal can. Domenico Zamboi, fu in grado di stipulare (25 ottobre 1853) con il delegato degli Scolopi, P. Pompeo Vita, e con la badessa del Monastero di S. Gregorio Armeno, donna Teresa Brancaccio, il contratto per l’istituzione nel suddetto stabile delle Scuole Pie.  

Sotto la direzione di P. Annibale Moschettini, originario di Martano, dette Scuole con l’annesso Convitto furono aperte al pubblico nel 1854 ed ebbero in breve un tale successo che l’Istituto, in data 1 marzo 1859, fu insignito dell’appellativo di “Reale Collegio”. Infatti il numero complessivo degli alunni, che in passato raramente aveva superato le 30 unità, fu in costante aumento, perché le famiglie apprezzavano la continuità direttiva e ancor più quella didattica, assicurata dalla presenza di un efficiente corpo insegnante, costituito tutto da religiosi.  

Nel 1860 nell’Istituto c’erano 13 docenti e gli alunni, già in numero di 180 (di cui 55 convittori), erano suddivisi in sei “scuole” (o classi), e precisamente: tre di grammatica, una di lettere umanistiche, una di retorica e una di diritto, morale, fisica, filosofia e matematica.   

Accanto alla notevole competenza didattico- educativa, P. Moschettini ed i suoi collaboratori dimostrarono anche capacità amministrativa, nonostante l’esazione delle rendite fosse particolarmente difficoltosa a causa dell’eccessiva frammentazione dei beni, peraltro ubicati in località abbastanza lontane da Galatina. Inoltre tra il 1854 e il 1862, quando vennero alla luce omissioni ed errori di calcolo, commessi a danno delle Scuole nel 1834 dall’amministratore dell’Azienda delle Scuole di Castro, gli Scolopi si appellarono all’Intendente Sozy Carafa e riuscirono a recuperare  2.000 ducati.   

Gli Scolopi, dopo la  proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861),continuarono a dirigere le Scuole e il Convitto di Galatina, in quanto la loro Congregazione non era stata soppressa dal R. D. 13 ottobre 1861, perché dedita all’educazione della gioventù. Essi, però, nell’insegnamento dovettero “conformarsi” ai decreti, con cui il Governo sabaudo estendeva all’ex  Regno delle Due Sicilie regolamenti e programmi già in vigore nel Regno di Sardegna. Pertanto le Scuole secondarie di Galatina proprio dagli Scolopi furono trasformate in Ginnasio, il quale già allora era articolato in un corso inferiore di tre anni ed in uno superiore di due.

Nel 1864 un dispaccio ministeriale indirizzato al Comune di Galatina disponeva che gli Scolopi nell’arco di un mese dovessero “modellare” le loro scuole ai regolamenti in vigore, altrimenti sarebbero state “irrimediabilmente chiuse”. In risposta, il Consiglio Comunale adottò il 26 novembre una deliberazione, nelle cui premesse, fra l’altro, è detto testualmente: “…la condotta pubblica dei Padri è stata sempre informata ai principi di libertà, sempre sono stati amici dell’attuale ordine di cose e zelanti nell’osservanza della legge, il che è dimostrato dal programma scolastico in tutto uniforme ai regolamenti in vigore, ed adottato fin dal 1861…”.

Quando fu emanato il R.D. 7 luglio 1866, che sopprimeva tutte le Congregazioni religiose, gli Scolopi avevano da circa un mese restituito la gestione dei beni patrimoniali delle Scuole al Comune di Galatina, il quale dal canto suo si era impegnato a versare ai Padri trimestralmente, finchè “ avessero adempiuto all’obbligo dell’insegnamento”, le somme da esigere al netto di tasse e spese. 

 Il  5 settembre 1866 il Consiglio Comunale di Galatina, considerato che gli Scolopi potevano essere assunti come insegnanti, nonostante la soppressione del loro Ordine, nominò i Padri: Sebastiano Serrao direttore- rettore e professore per la quinta ginnasiale, Cataldo Leone  professore per la prima classe, Paolo Carone per la seconda, Raffaele Iannaccone per la terza, Lorenzo De Quarto per matematica elementare, Giuseppe De Pace e Gian Gaetano Carriero per  le scuole elementari.

La direzione di P. Serrao, che durò fino al 1870 ( anno della sua morte), fu molto apprezzata dagli Amministratori Comunali, dagli alunni e dalle loro famiglie. Pertanto  il 21 aprile 1868 il Consiglio Comunale, con voto unanime,  dichiarò lo stesso Padre  “benemerito cittadino di Galatina”.

Intanto, dopo la soppressione degli Ordini Religiosi, al Ginnasio –Convitto di Galatina erano stati devoluti dal Fondo per il Culto l’ex Convento dei Domenicani e l’annesso giardino.

Ma l’attività delle Scuole, dopo la scomparsa di P. Sebastiano Serrao, fu caratterizzata da una crisi che sembrava inarrestabile ed era  dovuta a vari fattori, tra cui i seguenti:                          

- l’amministrazione delle scuole e del loro patrimonio, essendo esercitata direttamente dal Consiglio Comunale, era purtroppo condizionata da frequenti tensioni politiche;

- le rendite patrimoniali andavano subendo un progressivo impoverimento per il costante degrado degli immobili, che causava la riduzione degli importi dei canoni di affitto; a ciò  si univano le difficoltà logistiche che condizionavano e talvolta impedivano la riscossione dei canoni stessi e dei censi;

- era molto difficile reperire personale direttivo e docente, poiché coloro che ne avevano titolo preferivano i ginnasi governativi, per avere assicurato il diritto alla pensione;

- la popolazione scolastica e il numero dei convittori andavano sempre più riducendosi a causa della mancanza di continuità  direzionale e didattica: dal 1870 al 1883 ci furono ben otto direttori- rettori  e frequentissimi cambiamenti di docenti, perciò nel 1876 il numero medio di alunni per classe, che nel 1860 era di circa 30 unità, scese a sole 5 unità , mentre il Convitto rimase chiuso negli anni scolastici 1876-77 e 1877-78.

 Per uscire da una situazione tanto precaria il Consiglio Comunale provvide:

- alla riapertura nell’a.s. 1878-79 del Convitto, senza il quale “le Scuole ginnasiali si dovevano ritenere morte e sepolte”(tesi di Giustiniano Gorgoni, assessore alla P.I.);

- al pareggiamento delle scuole (1881), al fine di evitare che gli alunni dovessero sostenere ogni anno gli esami presso istituti governativi o pareggiati e per avere l’aiuto delle Autorità Scolastiche Superiori nella difficile ricerca di insegnanti forniti di titolo;

- a deliberare (3 aprile 1879) la vendita all’asta di tutti gli immobili posseduti in 7 paesi del Capo di Leuca, dai quali ormai si ricavavano appena 6000 lire annue, invece, alienandoli e investendo quanto riscosso in Rendita del Debito Pubblico, si sarebbero potute ottenere più di 16000;

- a disporre (14 maggio 1882) la vendita a rate di una parte del giardino confinante col fabbricato del Collegio, ripartita in 15 zone di suolo edificatorio.

Dopo la morte del direttore-rettore  Luigi Raggio, avvenuta all’inizio dell’anno scolastico 1883-84 gli Amministratori Comunali, su segnalazione del Provveditore agli studi, assunsero  (15 dicembre 1883)  per un quinquennio il sacerdote Carlo Tarentini da Cocumola, ritenuto “uomo di larga cultura e capace di rialzare le sorti” del Ginnasio-Convitto galatinese. 

Nel 1883-84 gli alunni del Ginnasio erano 55 e di essi 16 erano in Convitto.
Al termine dell’a.s. 1887-88 l’Amministrazione Comunale, valutando positivamente l’attività di Carlo Tarentini, confermò lo stesso nella direzione del Ginnasio-Convitto e delle Scuole Elementari maschili e femminili per il quinquennio 1888-89/1892-93. La continuità direzionale così assicurata contribuì all’ aumento degli alunni,  che nel 1889-90 erano 108, di cui 38 convittori.

L’opera del Tarentini era molto apprezzata dalla maggioranza consiliare e dal sindaco Michele Mezio, che il 10 luglio 1893 ne propose la conferma  per un terzo quinquennio. Tale proposta fu, però, duramente avversata dai consiglieri comunali di opposizione, e particolarmente da Antonio Vallone, il quale trovava inopportuno l’esonero dall’insegnamento di cui godeva il Tarentini e sosteneva che, incaricando della direzione un docente con l’assegno suppletivo di lire 500 annue, si potevano risparmiare 2200 lire, cioè lo stipendio annuale pagato al direttore. Dopo una lunga e vivace discussione, Carlo Tarentini fu confermato nella direzione dell’Istituto, con voto a maggioranza , per il triennio 1893-94/1895-96.     

Intanto, anche per motivi fiscali, si andava diffondendo fra gli Amministratori comunali  la convinzione che era opportuno dare al Ginnasio-Convitto un’amministrazione autonoma, trasformandolo in Opera Pia. A tal fine il C.C. il 2 maggio 1896, dopo aver deliberato  la richiesta al Prefetto di poter affidare, secondo le norme vigenti, l’amministrazione dell’Istituto ad una Commissione Speciale di nomina consiliare, approvò lo Statuto Organico del nuovo Ente Autonomo di  Beneficenza, la cui validità era ovviamente subordinata all’approvazione del Governo.

Il 23 luglio 1896 fu nominato direttore del Ginnasio e delle Scuole Elementari, nonché rettore del Convitto, il sacerdote Rocco Catterina da Molina (Trento), al quale unitamente alla direzione non fu assegnata alcuna cattedra, mentre gli venne assicurato lo stipendio annuo di lire 1400, oltre vitto e alloggio.                 

Durante la discussione del bilancio per il 1897 il sindaco Mario Micheli (in carica dal 1895) fece presente che l’Amministrazione da lui presieduta ( della quale faceva parte Antonio Vallone) si era proposti due obiettivi, e cioè: che le scuole non fossero di peso al Comune e che il Convitto potesse bastare a se stesso. Il primo era stato raggiunto nel 1896, perché la vendita rateale degli immobili e l’investimento del ricavato in titoli di Rendita Pubblica, decisi 17 anni prima,  avevano molto migliorato le condizioni finanziarie dell’Istituto; il secondo invece, affermava il sindaco, sarebbe stato perseguito nel 1898, perché il numero dei convittori (52 nel 1896) era in costante aumento.

Con R.D. decreto 3 marzo 1898  il Ginnasio-Convitto “Galatino” fu dichiarato I.P.A.B.  ( Istituto Pubblico di Assistenza e Beneficenza), mentre lo Statuto Organico dello stesso, dopo modifiche e aggiunte apportate dal C.C. su richiesta del Ministero della P.I., fu approvato con il R.D. 27 aprile 1899. Quest’ultimo era costituito di 13 articoli, nei quali erano, fra l’altro, regolati:    

- l’obbligo dell’Istituto di osservare sia le leggi riguardanti  le I. P. A. B. , che le norme relative alla Pubblica Istruzione, nonché quello di tenere gratuitamente  in Convitto due alunni bisognosi e di esonerare dalle tasse scolastiche gli studenti poveri;

- le prerogative e gli obblighi della Commissione amministrativa, costituita da un presidente e da quattro membri eletti dal C.C., i quali gestivano autonomamente le rendite patrimoniali delle Scuole e gli eventuali sussidi del Comune e della Provincia;

- i criteri da seguire per l’assunzione del personale previsto dalla pianta organica e per l’adozione di provvedimenti atti a migliorare le condizioni generali dell’Istituto.

Intanto, nel settembre 1898, il C.C., considerato lo “stato fiorente del Ginnasio” (120 alunni, di cui 60 convittori), con l’autorizzazione dell’Autorità Scolastica Provinciale, istituì con funzionamento graduale un corso liceale, che fu completo nel 1900-01. Detta istituzione era stata proposta e tenacemente sostenuta da Antonio Vallone, assessore alla P.I., che poi per alcuni anni vi insegnò gratuitamente Fisica.                                                                                                                              La Commissione Amministrativa (C.A.), prevista dal suddetto Statuto Organico, fu eletta dal C.C. il 7 agosto 1899 nelle persone di Vito Vallone (presidente), Alessandro Bardoscia fu Giovanni, Luigi Palma, Emilio Galluccio e Antonio De Paolis.  In detta delibera compare per la prima volta la denominazione “Pio Istituto Pietro Colonna detto il Galatino”, che poi sarà sempre usata nella forma ridotta “Pio Istituto P. Colonna”. Ne derivò che la Scuola fu denominata “Liceo-Ginnasio P. Colonna”, sostituendo definitivamente il titolo “Ginnasio-Convitto Galatino” attribuitole nel 1873 (v. art. 1 del “Regolamento interno” datato 5 novembre 1873).

Fra i primi provvedimenti adottati dalla C.A. vale la pena ricordare i seguenti:
 
- la nomina a vice-censore (figura professionale non presente in passato) conferita il 27 settembre 1899 a Ippolito De Maria;

- il rinnovo ( 4 agosto 1900) per un sessennio dell’incarico di direttore-rettore a Rocco Catterina, il quale aveva operato tanto bene che il numero degli alunni delle classi ginnasiali in quattro anni era passato da 90 a 136 unità.

Con il D.M. 8 maggio 1901 il corso liceale ottenne il pareggiamento.                                                      Dopo poco più di un anno e mezzo, la C.A. , ritenendo opportuno non disattendere le aspettative della cittadinanza, orientate per la conversione in governativo (allora detta “regificazione”)  del Liceo-Ginnasio, deliberò  (2 gennaio 1903)  la richiesta alla Amministrazione Comunale di avviare le pratiche relative, obbligandosi a corrispondere al Comune il prodotto delle rendite patrimoniali. Il C.C. fece la sua parte, ma al momento la cosa non ebbe alcun seguito, perché dal punto di vista legislativo la situazione non era ancora del tutto chiara. Infatti non era ancora stata emanata la Legge 16 luglio 1904, per effetto della quale detta regificazione sarebbe stata possibile previo pagamento di un canone annuo.

Il 25 febbraio 1907  la C.A. e il C. C., considerato che la pratica impostata nel 1903 conservava tutto il suo valore, confermarono l’istanza al Ministero della P.I. per la conversione in governativo dell’Istituto, nella speranza di ottenere le agevolazioni previste da una legge che era in discussione in Parlamento e che, una volta approvata (come di fatto avvenne il 3 marzo 1907) avrebbe previsto che la regificazione si sarebbe potuta ottenere versando un canone ridotto, purché l’Ente richiedente avesse presentato domanda entro il 30 giugno 1906.        

Il successivo 13 maggio tutto il corpo docente, compreso il direttore Rocco Catterina, con una lettera aperta  sollecitò il Consiglio Comunale a impegnarsi fattivamente per la regificazione ”conditio sine qua non” per portare l’Istituto “agli alti destini cui era chiamato”. Essa, infatti,  secondo i docenti, migliorando le condizioni materiali e morali di tutto il personale, avrebbe migliorato la Scuola. Inoltre avrebbe, fra l’altro, portato ad un naturale incremento della popolazione scolastica soprattutto con alunni provenienti da altri paesi e, quindi, recando beneficio all’economia galatinese. Gli stessi insegnanti, con nota del 14 maggio 1907, chiesero al presidente dell’Opera Pia, Vito Vallone, di fare subito domanda al Governo per chiedere l’intervento della Commissione ministeriale che doveva ispezionare l’Istituto ai fini della regificazione.

Ne seguì uno scambio di lettere tra il Comune e la C.A. dell’Opera Pia, al fine di stabilire  quale dei due Enti dovesse richiedere la Commissione Ispettrice. Alla fine di maggio, chiarito l’equivoco, il sindaco Emilio Galluccio chiese al presidente della C.A. le copie delle delibere di nomina o di conferma di tutti i professori, da inviare al Ministero della P.I. per ottenere l’ispezione.  

Secondo la tabella allegata alla legge 3 marzo 1907, il canone da corrispondere annualmente allo Stato per ottenere la regificazione del Liceo- Ginnasio di Galatina  ammontava a lire 36.737,25.    Per raggiungere tale importo si resero necessari:

-  la cessione all’Erario del reddito delle tasse scolastiche, determinato in lire.. .………….16.615,00

-  la garanzia offerta dal Pio Istituto P. Colonna, mediante cessione di titoli di Stato, che

  annualmente fruttavano lire………………………………………………………………..12.210,00

- l’impegno del Comune a conferire all’Esattore la delega a detrarre annualmente, per 10 anni,

 dalle sovrimposte comunali la somma di lire………………………………………………..7.912,25
 
Così fu finalmente possibile ottenere l'emanazione del R.D. n. 470 del 30 settembre 1807, il cui art.1 sanciva testualmente:     
                                
“ Il Liceo ginnasiale “P. Colonna” di Galatina è convertito a tutti gli effetti di legge in governativo dal 1° ottobre 1907”.

L’art. 2 del suddetto decreto, oltre a sancire che si doveva versare annualmente all’Erario dello Stato la somma di lire 20122,25 = lire(12210,00 + 7912,25) per le spese concernenti il personale direttivo, insegnante e di servizio del detto Liceo ginnasiale, imponeva all’Ente Morale P. Colonna di garantire un introito annuo di lire 16.615,00 per tasse scolastiche e di provvedere ai locali, al materiale scolastico e scientifico e a quanto altro occorresse per il buon andamento dell’Istituto.

Il 2 novembre 1907 il Sindaco trasmise al Pio Istituto P.Colonna  la nota con la quale il Provveditore agli Studi, d’intesa con il Ministero della P.I., comunicava che i seguenti professori potevano “essere assunti in servizio governativo”:  

- il prof. Rocco Catterina poteva essere confermato Preside effettivo senza insegnamento;  

- i professori. De Lorenzo, Duma, Chiriatti , Candido, Panico, Tondi, Papadia, Monastero, Luceri, De Franchis e Cesari erano assunti in servizio come straordinari e sarebbero passati ordinari dopo tre anni di esperimento, seguito da ispezione. 

Tuttavia, in attesa di ulteriori disposizioni ministeriali, non si potè procedere alle nomine regolari dei soprindicati docenti, che perciò conservarono gli incarichi avuti nell’anno scolastico 1906-07. Inoltre, poiché il Ministero sarebbe stato in grado di erogare gli emolumenti mensili al  personale solo dopo la registrazione da parte della R. Corte dei Conti del R.D. n. 470, il Pio Istituto continuò a pagare gli stipendi. Quindi, tra ritardi e contrattempi, il Liceo- Ginnasio di Galatina, a partire dall’a.s. 1907-08, si avviò a divenire un’invidiabile realtà dell’istruzione pubblica nel Salento.

Il Pio Istituto Colonna e il Comune di Galatina furono dispensati dal pagamento all’Erario del canone di regificazione dopo 24 anni, cioè con R.D. 14  settembre 1931. Ma l’Amministrazione Comunale continuò a pretendere dal Pio Istituto P. Colonna la fornitura alle Scuole di locali, suppellettili, registri scolastici, materiale di cancelleria, ecc., anche in presenza di norme che ponevano le spese di simili prestazioni a carico dei Comuni.

 La fornitura di registri scolastici al Liceo-Ginnasio non fu più effettuata a partire dal 1958, per decisione della C.A. presieduta dal prof. Carlo Stasi, ma il Pio Istituto  continuò a fornire i locali. Soltanto il 22 maggio 1967 tra il prof. Paolo Congedo, presidente pro tempore della C. A.,  e il dott. Cesare Brandi, commissario prefettizio al Comune di Galatina, ci fu una transazione con la quale fu stabilito che l’Amministrazione Comunale, a partire dall’anno scolastico 1962- 63, doveva pagare un canone d’affitto per i locali occupati dal Liceo Ginnasio.        

Pietro Congedo