sabato 29 settembre 2012

Ricordo di Renato Caccioppoli a 50 anni dalla morte



 Nei primi giorni di novembre del lontano 1949, essendo iscritto al 1° anno della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Napoli, entrai per la prima volta nell’Istituto di Matematica, che era situato  al 5° piano dello storico edificio di via Mezzocannone.

Trovai un avviso, con cui si comunicava che le lezioni del 1° corso di Analisi Matematica nel 1949-50 sarebbero state tenute nei giorni dispari, dalle 11 alle 12,  dal prof. Renato Caccioppoli, mentre nei giorni pari il prof Carlo Miranda avrebbe tenuto le lezioni del  2° corso della stessa disciplina. Trattandosi di docenti a me sconosciuti, chiesi informazioni ad uno studente di 2° anno, il quale mi disse che nell’insegnamento nei corsi di Analisi Matematica i due docenti si alternavano. Aggiunse: “Entrambi sono bravi matematici, ma Renato Caccioppoli è un genio.”

Una matricola come me, che aveva ascoltato la conversazione, si dichiarò contenta di poter essere allieva di un genio, ma altri due presenti la gelaronro dicendo a gran voce che gli studenti di 1° anno erano nei guai, in quanto il prof. Caccioppoli era molto esigente ed intollerante, per cui era più facile vincere al lotto che superare un esame con lui.
Il lunedì successivo alle 11 facevo parte di una vociante folla di studenti, che nella vasta aula n.5, ultima in fondo ad un lungo corridoio, attendeva la prima lezione di Caccioppoli.                                                     

Intanto nei riguardi del professore si riferivano aneddoti sulle strane abitudini di vita, sulla militanza politica e soprattuto sulla severità con cui usava punire gli studenti per quelle che a lui sembravano superficialità e approssimazioni. Ma si accennava anche alla sua genialità in campo matematico ed alla sua eccezionale competenza in musica e lingue straniere.

L’attesa durò a lungo, infatti solo intorno alle 11,30 qualcuno gridò: “Arriva! ”

Avvicinatomi alla porta, lo vidi avanzare lentamente nel corridoio, lungo il muro alla sua destra.

Quando fu più vicino mi colpì per il suo viso rugoso e magro, coronato da capelli neri e lisci che formavano un ciuffo sulla fronte spaziosa, sotto la quale vigilavano due occhi saettanti.              Fra le labbra sottili  aveva una sigaretta, che fumava con la stessa lentezza del proprio incedere.

Non mi sorprese il suo abbigliamento, perché poco prima lo avevo sentito descrivere in maniera dettagliata da uno degli studenti: a causa della pioggia era intabarrato in un impermeabile liso e non proprio pulito, sotto il cui bavero aveva una sciarpa incrociata sul collo, che non si sapeva cosa nascondesse a causa della rigorosa abbottonatura del trench.

Alle 11,35 egli era in cattedra e, nel silenzio generale, cominciò a parlare, accennando brevemente al programma che intendeva svolgere. Iniziò poi la trattazione dell’analisi combinatoria..

Il suo elegante e preciso modo di porgere mi avrebbe affascinato, se egli non avesse dato per noti alcuni concetti, che invece erano nuovi, e non solo per me che provenivo dal liceo classico.

La lezione terminò puntualmente alle ore 12 dopo soli 25 minuti. Più o meno tale sarebbe stata la durata di ogni lezione sino alla fine del corso. Il perché lo rese noto un giorno lo stesso professore, sostenendo che dopo 25 minuti coloro che avrebbero continuato a seguire e comprendere il suo discorso erano talmente pochi che egli non riteneva valesse la pena continuare a parlare.

Interessato alla vita e alla carriera di Renato Caccioppoli, venni a sapere che suo  nonno materno era stato il rivoluzionario russo Michail Aleksandrovic Bakunin (1814 – 1876), che nel 1865,  durante un lungo soggiorno a Napoli, aveva sposato Antonia, figlia di un ingegnere polacco, dalla quale aveva avuto due figlie, Giulia Sofia e Maria. Quest’ultima diventò famosa docente  di chimica nell’università napoletana. Giulia Sofia a 34 anni sposò il cinquantunenne medico napoletano Giuseppe Caccioppoli. I due tra il 1904 e il 1910 ebbero cinque figli, ma solo il primogenito Renato e il fratello Ugo rimasero in vita.

Entrambi trascorsero l’infanzia e l’adolescenza in un ambiente culturale originale e  raffinato. Renato conseguì la licenza liceale privatamente, poichè il padre, nella convinzione che la medicina fosse una scienza a forte impatto emotivo e poco affidabile negli esiti, gli aveva fatto frequentare l’istituto per geometri nell’intento di impedirgli l’accesso all’università e, quindi, la possibilità di diventare medico come lui. 

Sempre per volere del padre, s’iscrisse ad Ingegneria, ma successivamente, su suggerimento dell’amico di famiglia Benedetto Croce, passò a Matematica. Il prof. Gianfranco Cimmino, suo grande amico e collega, sostiene che: “…forse la sua scelta per la matematica, tra le tante possibilità che gli si presentavano, fu anche dettata dalla voglia di cimentarsi in un campo in cui eccellere è più raro e difficile ”.

Nel 1925 si laureò nell’Università di Napoli, sotto la guida del prof. Ernesto Pascal, ma riconobbe come suo maestro il prof. Mauro Picone, del quale divenne assistente. Conseguì la libera docenza nel 1928 e tre anni dopo vinse il concorso per la cattedra di Analisi Algebrica presso l’Università di Padova. Proprio durante la permanenza in questa città si andò accentuando  il suo modo di essere ribelle ed anticonformista. Infatti, con la barba incolta ed i vestiti sporchi e malridotti, cominciò ad andare in giro senza soldi  in tasca ed a viaggiare in treno privo di biglietto, fino ad essere fermato per vagabondaggio.

Ma negli stessi anni non cessò la sua produzione scientifica, nella quale andava sempre più rivelando intuizione e genialità eccezionali. Pertanto nel 1932 l’Accademia dei Lincei gli conferì il premio nazionale per le Scienze Fisiche.

Intanto veniva invitato a trasferirsi all’Università di Roma da Mauro Picone, il quale, divenuto titolare in quella sede, andava costituendo un’équipe di lavoro con i suoi migliori allievi.  Caccioppoli non accettò, forse perché desiderava rientrare a Napoli, di cui gli mancavano i salotti musicali (in cui poter eseguire al pianoforte gli amati Wagner, Strauss e Beethoven), il “Circolo di Posillipo” (dove si dibatteva di Shopenhauer e Rilke, di Kierkegaard e Bergson e si coltivava un’appassionante attività di cineforum) e soprattutto la possibilità di girovagare per la Città frequentando bar e osterie aperti fino a notte fonda.

Lasciò Padova nel 1934 e, ritornato nell’Università di Napoli, vi insegnò prima Teoria dei Gruppi, poi Analisi Superiore e infine, a partire dal 1943, Analisi Matematica. Continuò a curare la ricerca anche mediante rapporti internazionali, nei quali era agevolato dal saper parlare correntemente  russo, francese,  tedesco e inglese. Così il suo curriculum si andava arricchendo di pubblicazioni, che  da un  lato allargavano la cerchia di coloro che venivano a conoscenza del suo talento, dall’altro contribuivano a tener alto il prestigio degli studi matematici italiani nel periodo in cui molti grandi scienziati erano costretti dal fascismo a lasciare i loro incarichi universitari e riparare all’estero.

Renato Caccioppoli una volta tornato a Napoli rimase deluso però dall’atmosfera politica priva di qualunque elemento di resistenza al fascismo. L’inerzia dei suoi concittadini in occasione dell’aggressione dell’Etiopia del 1935 lo rattristò profondamente. In tale circostanza egli confidò a sua zia Maria: “Napoli è una palude e noi siamo la fauna malata di questa palude. La vigliaccheria ci fa ingrassare e ci uccide contemporaneamente”.

Intervenne allora la madre Giulia Sofia rivolgendosi all’amico di famiglia avv. Mario Palermo, figura di spicco dell’antifascismo napoletano, e lo pregò di stare vicino al figlio, confidandogli: “La solitudine politica lo sta facendo ammattire”.

L’anziano avvocato, assiduo frequentatore di Benedetto Croce, Enrico De Nicola, Giovanni e Giorgio Amendola, invitò subito in casa sua il giovane Renato e fu colpito dalla sua umanità,  intelligenza e cultura, nonché dalla sua ironia. Tra i due nacque una profonda amicizia e insieme cominciarono a frequentare gli incontri segreti di esponenti comunisti, che avvenivano nel retro della libreria Guida di Port’Alba. Ma questo clima di cospirazione permanente non si addiceva a Caccioppoli, che, pur essendo sostanzialmente un non-violento, soleva ripetere a se stesso (come riferisce D. Rea in Mistero napoletano): “Occorre che mi esibisca, che salga su un palcoscenico senza occuparmi troppo delle conseguenze, occorre parlare alla gente a voce alta.”

A tal proposito una buona occasione gli fu offerta da Achille Starace, segretario del P.N.F., che con propria circolare aveva consigliato agli uomini di non farsi vedere per strada mentre portavano a spasso il cane. Egli accolse il consiglio e andò a passeggio per le vie principali di Napoli, portando al guinzaglio un gallo.

Nel 1936 il trentaduenne Renato Caccioppoli conobbe la bella sedicenne Sara Mancuso, figlia di un siciliano e di una napoletana, la quale, essendo vissuta a Nizza, aveva una buona conoscenza della lingua e della letteratura francese. Se ne innamorò a prima vista, la frequentò per tre anni e la sposò in Municipio il 29 giugno 1939. Il matrimonio, però, era stato celebrato dopo una dura e triste esperiemza di entrambi. Infatti nella tarda sera di uno dei primi giorni del maggio 1938, alla vigilia della visita di Hitler a Napoli, Renato e Sara erano entrati in una birreria Lowembrau, nella quale fra gli  avventori c’era  un gruppo di ufficiali della milizia, gerarchi fascisti e vari poliziotti. Visti i due giovani fidanzati, gli uomini in camicia nera, alticci per la birra bevuta, si misero a cantare Giovinezza, imponendo al pianista del locale di accompagnarli con la musica.

Quando il coro ebbe finito la propria esibizione, Caccioppoli, sedutosi al pianoforte, si mise a suonare con consumata perizia la Marsigliese, mentre Sara cantava in perfetto francese.

I fascisti, colti di sorpresa, rimasero attoniti. Il Nostro poi rivoltosi al pubblico presente, spiegò che la canzone ascoltata “…era l’inno di un paese libero, inno di libertà, la stessa libertà che in Italia era  soffocata  e negata da Benito Mussolini, che con il suo alleato tedesco…”. A questo punto il suo discorso fu bruscamente interrotto, poichè i fascisti, superata la sorpresa, si scagliarono contro Renato e Sara, i quali furono arrestati e condotti in Questura, con l’evidente rischio di finire dinanzi al tribunale speciale.

La famiglia di lui intervvenne prontamente, chiedendo l’intercessione del capo della polizia Carmine Senise, amico del dott. Giuseppe Caccioppoli. Ma per salvare Renato dal confino fu anche  necessario farlo dichiarare pazzo. Perciò fu internato nello squallido manicomio criminale di Napoli, mentre Sara se ne tornò a casa.  

Fu poi trasferito in un’accogliente clinica psichiatrica privata, dove rimase a lungo, godendo di una sorveglianza meno stretta, per cui potè continuare a studiare, incontrare i suoi amici matematici, in particolare Carlo Miranda e don Savino Coronato, con i quali collaborava in ricerche ed iniziative tendenti a promuovere lo sviluppo dell’Istituto di Matematica napoletano, che era in crisi a causa di numerosi pensionamenti e trasferimenti avvenuti a partire dal 1930. Ebbe anche la possibilità sia di uscire a passeggio con amici, sia di suonare il pianoforte.

Una volta dimesso dalla clinica Renato Caccioppoli, sebbene fosse un sorvegliato speciale della polizia, non interruppe mai del tutto le relazioni con gli antifascisti sia comunisti che liberali.

Caduto il fascismo, riprese a frequentare con regolarità Emilio ed Enrico Sereni, Antonio e Giorgio Amendola, Mario Palermo, Adolfo Omodeo, Carlo Bernari e tanti altri.

Nella Napoli monarchica del dopoguerra egli si schierò ovviamente per la Repubblica. Dopo il sanguinoso attentato alla sede della Federazione comunista, avvenuto l’11 giugno 1946, ospitò nella proprio appartamento di palazzo Cellamare in via Chiaia i maggiorenti del P.C.I. Sereni, Palermo, Valenzi, Cosenza e Alicata, riuniti per decidere il da farsi.             

Pur non prendendo mai la tessera del partito, Caccioppoli fu molto attivo in politica, specie come animatore dell’organizzazione unitaria “Partigiani per la Pace”, che si batteva per il disarmo. Invitato come tale a parlare in un teatro di Bari, si presentò nell’ora stabilita e salì sul palcoscenico. Avendovi trovato per puro caso un pianoforte, si mise subito alla tastiera ed eseguì brani di Strauss, Beethoven, Debussy ecc., dinanzi ad un’affollata platea. Questa andò in visibilio allorchè, a conclusionne del “concerto”, egli disse che per esprimere il significato della pace non c’era mezzo migliore della musica.

In due anni di frequenza dell’Istituto di Matematica io ebbi modo di constatare e apprezzare in Caccioppoli l’acutezza di mente dello scienziato, il rigore e la forbitezza di linguaggio del matematico, nonchè la sottile ironia dell’uomo, ma non riscontrai in lui la disponibilità del docente ad una didattica adatta a rendere le proprie lezioni più comprensibili agli studenti.                                  Al termine di una lezione di calcolo differenziale uno dei presenti gridò: “Non ho capito niente!”

Il professore senza scomporsi ribattè prontamente: “Io sono uno scienziato, non un pedagogo!”, e aggiunse ironicamente di essere disposto a dare lezioni private.

Arrivare preparati a fare gli esami con Caccioppoli era un’impresa ardua. Per non naufragare in una bocciatura il solo salvagente di cui si disponeva erano le dispense delle “Lezioni di Analisi Matematica” e delle relative “Esercitazioni”, che recavano la sua firma.        

In ore e ore di studio su tali testi si cercava di comprendere appieno quel che il professore aveva detto in aula, durante i suoi monologhi di fronte alla lavagna, e di acquisire, nello stesso tempo, la capacità di espressione richiesta dall’esaminatore. E molti erano coloro che interrompevano                                                                                               il corso, proponendosi di riprenderlo nell’anno seguente con le lezioni del prof. Carlo Miranda.

Nell’appello di esami che ebbe luogo nel giugno 1950, Renato Caccioppoli si confermò esaminatore duro e imprevedibile: pochissimi i voti superiori a 24/30, molti quelli inferiori, numerose le bocciature. Avendo io deciso di presentarmi all’appello di luglio, chiesi di essere esaminato nel primo giorno, che era riservato ai volontari e detto perciò appello libero.

Non eravamo in pochi ad aver fatto questa scelta, perciò la mattina del 2 luglio, giorno della prova, ci rendemmo conto che non tutti saremmo  stati esaminati nelle ore antimeridiane.

Si cominciò alle 8,30. Non essendoci un elenco che indicasse l’ordine delle chiamate, nessuno sapeva però quando sarebbe stato il suo turno, né osava chiederlo alla commissione, costituita dallo stesso Caccioppoli e da don Savino Coronato.Tutti gli interessati non si allontanavano dall’aula, temendo di essere chiamati da un momento all’altro, anche perché alcuni studenti rinunziavano all’esame non rispondendo all’appello. 

Tra bocciature e approvazioni con voti prevalentemente inferiori ai 24/30 si arrivò alle ore13. Dopo una pausa di due ore gli esami ripresero puntualmente alle 15 con lo stesso ritmo della mattinata. Erano passate le ore 20, quando dopo lunga e snervante attesa arrivò il mio turno.

Subito rischiai di essere mandato via per un mio malinteso sul primo quesito postomi. Ma, chiarito l’equivoco, riuscii a rispondere esaurientemente sia alla prima che alle successive domande. Alla fine Caccioppoli scrisse il voto, che intendeva assegnarmi, su un pezzetto di carta, che passò al prof. Coronato per la trascrizione sui documenti d’esame. Firmò poi il mio libretto e nel consegnarmelo esclamò: “Approvato con 28!”. Poi, rivolto a Coronato, aggiunse: “Sembrerebbe che siano arrivati i cannoni, ma sono certo che il prossimo sarà un fucile a bacchetta.” Io stordito, ma felice,  scesi  volando le scale dell’Istituto.

Nel luglio dell’anno successivo, con animo alquanto più sereno, affrontai l’esame di Analisi Matematica 2 con la stessa commissione. Risposi bene a numerosi quesiti, l’ultimo dei quali era la soluzione di un’equazione differenziale, al cui risultato andava aggiunta una costante reale, che io avevo indicato con un’espressione che portava invece ad un numero positivo. Ciò fece tanto infuriare il prof. Caccioppoli che mi assegnò un modesto 22/30.

Forse è esagerato affermare, come è stato fatto, che Renato Caccioppoli “era un matematico ammaliatore” o che “dalla cattedra affascinava e rapiva gli studenti”, ma è assolutamente certo che egli fosse un autentico genio.

Molto opportunamente, quindi, due grandi matematici  hanno detto di lui:

-          “Non amava il lavoro di lima e di rifinitura, ma preferiva affrontare costantemente problemi nuovi e con l’intuito geniale di cui era dotato sapeva spesso precorrere i tempi aprendo nuove vie al progresso della scienza”(Carlo Miranda);

-          “Sapeva muoversi in… spazi a dimensione infinita con estrema sicurezza intuitiva, comprendendo a prima vista dove l’analogia col finito funziona e dove l’analogia con gli spazi di dimensione finita cessa di funzionare”(Ennio De Giorgi).

Le ultime sue pubblicazioni risalgono al 1952 e 1953, quando fu di nuovo premiato per le Scienze Fisiche e Matematiche dall’Accademia Nazionale dei Lincei. 

I suoi ultimi anni furono i più tristi: nel 1956 la repressione sovietica dell’Ungheria, minando alle fondamenta le sue certezze ideali, spense in lui l’impegno politico; la moglie Sara lo abbandonò, andando a vivere con Mario Alicata; egli forse sentiva venir meno la propria vena matematica

Prese a bere sempre di più e andò progressivamente isolandosi, finchè venerdì 8 maggio 1959,                                                                                                                   invece di andare all’università per l’ultima lezione dell’a.a. 1958-59, rinchiuso nel proprio appartamento di palazzo Cellamare, si tolse la vita con una rivoltella calibro 7,65. Non ebbe funerali religiosi, ma seguiva il suo feretro pregando e piangendo il sacerdote don Savino Coronato, suo fedele collaboratore ed amico.

Lucio Lombardo Radice sul giornale Unità del 12 maggio 1959 scrisse fra l’altro: “Caccioppoli è morto senza dire perché, ma in fondo erano anni che ce lo diceva. […] Per lui, la morte aveva un significato; riferito a Renato il vecchio adagio va così ribaltato: ‘Finchè c’è morte c’è speranza’.”

Ha lasciato un’ottantina di lavori di grande importanza, che nel 1963 sono stati raccolti in due volumi pubblicati dall’Unione Matematica Italiana, a cura di Mauro Picone.

Sugli ultimi giorni di Caccioppoli nel 1992 è stato prodotto un film, diretto da Mario Martone , intitolato Morte di un matematico napoletano.  

A lui sono stati intitolati sia il nuovo Istituto di Matematica dell’Università Federico II di Napoli, sia un asteroide esistente tra Marte e Giove, indicato con la sigla 9934.

Un significativo omaggio gli è stato tributato dal suo maestro, Mauro Picone, allorquando, con grande onestà ed umiltà, in una lettera del 1962 al collega Gianfranco Cimmino, ha scritto:


EGLI  DIVENNE  IL  MAESTRO  ED  IO IL   DISCEPOLO


                                                                                                                     Pietro Congedo

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I Monaci Olivetani, detti "Bianchini", a Galatina dal 1494 al 1807



  1- La Congregazione di S. Maria di Monte Oliveto (Ordo Sancti  Benedicti) fu canonicamente costituita ad Avignone, il 21 gennaio 1344, da papa Clemente VII per dare veste formale e regolare ad un movimento avviato più di trent’anni prima da un membro della nobile famiglia dei Tolomei di nome Giovanni (1272-1348), che cambiò in Bernardo, in segno di devozione al santo abate di Chiaravalle

  Giovanni  Tolomei aveva iniziato i suoi studi nel convento di S.Domenico di Siena e li aveva completati nell’Università della stessa città, divenendone maestro di diritto; era stato nominato cavaliere dell’Impero, ma conduceva come alcuni altri nobili, un’intensa vita di pietà.

  Egli nel 1313 si ritirò, insieme a Patrizio Patrizi e Ambrogio Piccolomini, in un podere di sua proprietà nella desolata compagna di Accona in prossimità di Buonconvento ( Siena ), dove  proprio in quel anno morì di malaria l’imperatore Arrigo VII, che era sceso in Italia per tentare di metter fine alle cruente lotte tra le opposte fazioni della zona.

  I tre, deposti i propri abiti, indossarono altri più modesti, lavorando per poter vivere, ma soprattutto dedicandosi alla preghiera e alla penitenza. Molti nobiles ac ignobiles, provenienti da varie città toscane, si unirono ai predetti per vivere la stessa vita ascetica.

  Data la diffidenza della Chiesa del tempo verso i gruppi d’ispirazione religiosa, che spesso finivano nell’eresia, il Tolomei si rivolse all’autorità religiosa diocesana per regolarizzare canonicamente la numerosa comunità costituitasi intorno a lui.

  Guido Tarlati, vescovo della diocesi di Arezzo, della quale faceva parte Accona, il 26 marzo 1319 rilasciò a Bernardo Tolomei e a Patrizio Patrizi, convenuti nel palazzo vescovile, la Charta fundationis  del Monastero di S. Maria di Monte Oliveto sub regula sancti Benedicti, concedendo le necessarie facoltà e particolari esenzioni.

Successivamente Bernardo Tolomei emise la professione di fede, dopo aver ricevuto da un delegato del vescovo l’abito monacale, che lui stesso aveva scelto di colore bianco in onore della Madonna e perché conforme alla simbologia neotestamentaria, battesimale ed escatologica.

Così gli austeri eremiti convenuti ad Accona, in un periodo di decadenza del monachesimo, cominciarono a vivere secondo lo spirito della regola di S. Benedetto, vestiti di tonaca bianca, cinta di fascia dello stesso colore, scapolare sciolto con cappuccio increspato e cocolla pure di lana bianca.  Essi, temperando il primitivo orientamento eremitico , trovarono nel cenobitismo benedettino la garanzia della loro vocazione contemplativa e l’ordinato sviluppo della loro ascesi.

Il primo abate del Monastero di S. Maria di Monte Oliveto fu Patrizio Patrizi. Infatti Bernardo Tolomei, adducendo l’impedimento di una certa infermità visiva, ne aveva reiteratamente rifiutato l’elezione. Egli soltanto nel 1321 accettò di essere abate del monastero da lui fondato. Successivamente i monaci, nonostante avessero a suo tempo stabilito la non rielezione dell’abate al termine del mandato annuale, ignorarono tale disposizione e per ben 27 anni lo vollero nell’ ufficio abbaziale.

L’approvazione pontificia fu ottenuta nel 1344, senza che l’abate si recasse dal Papa ad Avignone.

La Congregazione Olivetana conobbe uno sviluppo piuttosto rapido, ma durante la pestilenza del 1348 B. Tolomei e altri 80 monaci morirono a Siena, dove erano accorsi  per assistere gli appestati.

Dopo tale decimazione ci fu una graduale ripresa e nel 1400 i monasteri olivetani erano 23 con 318 monaci. Questi continuarono ad aumentare e si rese perciò necessaria l’istituzione di nuovi monasteri, alla quale contribuirono sovrani e principi del tempo, tra cui il re di Napoli Alfonso II di Aragona.  


 2- Nel rispetto della regola di S. Benedetto, alla base della spiritualità olivetana c’era la preghiera, infatti l’Ufficio divino era al centro della pietà dei monaci e…per poterlo celebrare degnamente, essi divennero frequentemente miniatori e calligrafi allo scopo di dotare i loro cenobi dei libri liturgici necessari….Altrettanto significative le strutture entro le quali si svolgeva il loro colloquio con Dio: raffinati monaci intarsiatori con il passar degli anni giunsero a realizzare per le loro chiese cori e leggii di rara bellezza….   

Anche il testo basilare della legislazione olivetana del XV secolo, le costituzioni del 1445, offre elementi illuminanti sul ruolo che la preghiera occupava nella giornata dei monaci. Tutto infatti si svolgeva nella intelaiatura delle tradizionali ore canoniche, della Messa conventuale e della lectio. Tra i vari esercizi prescritti, i principali sono sempre in stretto rapporto con la preghiera no solo nella prescrizione discere cantum per i novizi, ma anche con attività manuali (…et intelligatur in exercitio…scribens, minians, suens ), che costituiscono le premesse dello sviluppo artistico tra i monaci di Monte Oliveto.   

Però nel XV secolo…l’atteggiamento assunto dagli olivetani di fronte alla regola di S. Benedetto (che è del VI secolo) fu quello di una fedeltà rigorosa, ma non letterale, più attenta agli elementi ascetici e meno preoccupata delle forme giuridiche transitorie, che possono, anzi debbono adattarsi alle diverse situazioni storiche….        

Per esempio, nella regola benedettina il rapporto tra l’abate e il capitolo dei monaci era solo quello di un aiuto offerto dal secondo al primo, che doveva compiere scelte importanti, poiché la responsabilità ultima delle scelte stesse era solo dell’abate. Detto rapporto per gli olivetani si capovolge: il Capitolo Generale… è l’organo investito della massima autorità, all’assemblea capitolare competono, infatti, le decisioni più importanti, che poi l’Abate dovrà eseguire, rendendo conto però del suo operato al medesimo Capitolo convocato a scadenze piuttosto ravvicinate….  

Ne derivò la temporaneità della carica di Abate, ottenuta non con la soppressione della perpetuità dell’abbaziato, ma con l’introduzione delle modalità per la rinuncia e stabilendo pene per l’Abate che opponesse resistenza alla rinuncia stessa.  

Un altro importante aspetto della spiritualità olivetana era la solitudine  intesa come tendenza alla vita ritirata e solitaria in quotidiano contatto con la preghiera e la penitenza. Le prime costituzioni insistevano addirittura sulla necessità della separazione dal mondo dei perversi, senza però offendere il precetto della carità. Tuttavia cercare la solitudine non significava isolarsi totalmente dal contesto sociale, poiché il precetto della carità imponeva la buona accoglienza da riservare agli ospiti, specie ai più poveri, ai quali era destinato tutto ciò che non era essenziale alla “domus” monastica. Comunque l’attaccamento alla solitudine, nei secoli XVI e XVII, non impedì ai monaci di prendersi cura delle parrocchie e di dedicarsi alla predicazione.    

La Congregazione olivetana, fondata in Italia nel secolo dell’Umanesimo, prese una chiara posizione anche di fronte cultura che non poteva essere coltivata dai monaci se non in ordine alla ricerca di Dio e alla edificazione spirituale degli altri. L’orientamento, pertanto, era in favore della cultura biblica e patristica…. Più tardi, specialmente nel XVII secolo, gli olivetani si distinsero anche nel campo delle scienze e delle lettere con un impegno più diretto; se da una parte, in qualche caso, potè sembrare un cedimento di fronte alla vita monastica, in realtà fu un atteggiamento che consentì al monachesimo di Monte Oliveto…di rimanere inserito nei problemi culturali più vivi del suo tempo….

Inoltre…tra umanisti e monaci olivetani correva una reciproca simpatia, ben testimoniata dalla stima del sommo Petrarca per la Certosa.


3- Un “Catechismo monastico olivetano” della metà del XVIII secolo, riservato alla formazione dei novizi, presenta, sotto forma di dialogo tra maestro e novizio un quadro completo, della formazione spirituale olivetana. Nella parte conclusiva di esso il novizio formula “l’epilogo di tutto l’ammaestramento ricevuto”, dicendo fra l’altro:…il professo… assume l’obbligo di tendere alla perfezione…, la quale consiste nel fare ciò che Dio vuole da lui, facendo la vita…(degli) olivetani veramente delicati di coscienza, veramente timorati di Dio e veramente osservanti della Regola; e questi sono (coloro) che oltre la sostanza della Regola, amano la puntualità nelle cose piccole, e specialmente nella salmodia….

La vita olivetana è … contemplativa, cioè vita di orazione, il fare tal vita come Dio vuole da noi chiamati è il farla in orazione con la meno interrotta e più intensa elevazione di mente a Dio nelle quotidiane operazioni….

Sarà… indispensabile il totale aborrimento di ogni minimo peccato veniale, che è sempre un male massimo, è sempre un male massimo, e sempre direttamente opposto all’elevazione a Dio, dal quale ogni peccato veniale o poco o molto ci allontana…. Quest’aborrimento sarà qualità indivisibile della nostra orazione…, poiché infallibilmente si suppone in chi vuol tendere alla perfezione.

L’altra qualità pure indivisibile della nostra orazione…è la mortificazione…delle indifferenti e lecite inclinazioni nostre, con che si venga ad annichilire la nostra volontà…. Mortificheremo le  

nostre  inclinazioni disponendo nel decorso del giorno tanti e tanti atti di virtù in ogni genere.

Finalmente aiuto necessario a battere la strada della perfezione saranno la lezione spirituale e la meditazione…. La lezione sia posata e seria e d’argomenti adattati al proprio bisogno e sempre cavando qualche proposito pratico per il nostro miglioramento. La meditazione consista nel sempre più stabilmente fissarsi nella mente l’obbligo di tendere alla perfezione, nell’esaminare minutamente come ci è riuscito di tendere alla perfezione il giorno antecedente, e per ultimo stabilmente risolvere per il giorno seguente di tendervi meglio , o con la correzione della negligenza… o con maggiore attenzione e diligenza.


4- Al centro della spiritualità olivetana c’è stato fin dalle origini il culto mariano, come è dimostrato dalla dedicazione alla Madonna prima del Monastero di Monte Oliveto Maggiore e successivamente di tutta la Congregazione.

Figura eminente della stessa spiritualità è Santa Francesca Romana [ Franceschella  di Paolo de Buscis (1384-1440)], nobildonna romana, che non fu monaca nel senso tradizionale del termine, ma fondò le oblate olivetane (1425) e fu esempio di santità ispirata dagli ideali ascetici della Congregazione nella società dell’Umanesimo. A lei gli olivetani, a partire ‘400 hanno sempre guardato come a una madre. Fu santificata da Paolo V nel 1608. La sua festa è celebrata il 9 marzo.

Per Bernardo Tolomei, fondatore della Congregazione, si ebbe una prima approvazione del culto “ab immemorabili” nel 1644, mentre il decreto sulla eroicità delle sue virtù fu emesso il 31 agosto 1768. Per lo scompiglio causato dalle reiterate soppressioni dell’Ordine, solo nel 1968 la causa della sua canonizzazione è stata ripresa in esame dalla Congregazione dei Riti. La sua festa è celebrata il 21 agosto.


5- Nei monasteri della Congregazione olivetana non sono ovviamente mancati momenti in cui la condotta dei monaci ha in vario modo lasciato a desiderare. Pertanto sono stati frequenti, particolarmente nel ‘700, interventi degli Abati generali per richiamare al senso di responsabilità i P Priori dei monasteri affinché:

- maestri e lettori s’impegnassero a fondo nell’istruire i novizi “non meno nella pietà che nelle lettere, formando in essi l’uomo nuovo”;

- i giovani fossero esercitati nel silenzio, nelle astinenze, ei moderati digiuni e nella pratica di quelle piccole cose che aumentano il disprezzo del mondo;

- si fosse fedeli al voto di povertà, aborrendo da atteggiamenti secolareschi;

- si eleggesse in ciascun monastero il depositario di tutto il denaro posseduto da ogni singolo monaco, proibendone l’uso anche per le spese necessarie ( che dovevano essere effettuate dallo stesso depositario) e soprattutto per impedirne i prestiti fuori dei conventi;

- non si prendesse denaro, sotto qualunque pretesto, per la vestizione o la professione dei novizi;

- fosse evitata da parte di tutti i monaci la rincorsa smodata ai posti di prestigio e soprattutto la ricerca a tal fine di raccomandazioni a personaggi influenti.


6- La Regola di S. Benedetto al cap. 48 prescrive che i monaci in alcune ben determinate ore debbano occuparsi del lavoro manuale e in altre, anch’esse ben fissate, dello studio delle cose divine.

In un primo periodo questo genere di studio fu fatto da ogni monaco a titolo personale e considerato vero valore ascetico a motivo della sua fruttuosità spirituale. Ma alla fine del XV secolo fu stabilito che in ogni monastero fosse deputato e costituito il “maestro dei novizi”, dal quale i giovani dovevano essere istruiti nella “dottrina evangelica tramandata dai Padri”. Questo mentre le delibere capitolari escludevano ancora categoricamente gli studi umanistici. Invece alla metà del XVI secolo fu ammesso “lo studio delle lettere non per se stesse, ma perché potevano aiutare a conservare la disciplina della vita regolare”. Quando poi la Chiesa fu dilaniata dalla riforma protestante, si ritenne opportuno introdurre lo studio regolare di grammatica, lettere umane,  logica,  filosofia e , “per gli alunni capaci” anche di teologia. Inoltre fu stabilito che i “lettori” (cioè insegnanti) dovessero  “leggere” quello che di solito veniva  “letto” nelle Università e quello che poteva giovare maggiormente agli allievi.

Nel biennio 1554/1556 erano coltivati in ogni monastero, ma in seguito vennero scelte particolari sedi per lo studentato. Intorno al 1610 fu stabilito che l’insegnamento della teologia fosse impartito

nei monasteri di Milano, Bologna, Roma e Napoli, mentre la filosofia era insegnata a Monte Oliveto Maggiore, Perugina, Ferrara, Verona e Cremona.

Tra il 1654 e il 1657 furono istituiti diciotto chiericati, di cui tre nel Regno di Napoli , e precisamente nei monasteri S. Gabriele di Aiola ( Benevento), S. Caterina Novella di Galatina e SS. Nicolò e Cataldo di Lecce.  

Le Costituzioni del 1573 disponevano che i lettori dovessero essere “ idonei et probatae fidei et doctrinae undique conquisiti “(capaci e di provata fede, cercati con cura ).

Qualora non ci fossero monaci idonei per qualche insegnamento, l’Abate, senza badare al costo, poteva chiamare personale esterno alla Congregazione.

Con questa impostazione degli studi e con l’impegno profuso per il buon funzionamento delle scuole si ebbero monaci olivetani esemplari nella vita regolare e luminari nelle scienze, come per esempio, Vincenzo Renieri ( morto nel 1647), successore di Galileo Galilei nell’ Ateneo pisano, il matematico Ramiro Rampinelli (morto nel 1758), maestro della scienziata Gaetana Agnesi, e l’Abate Ercole Corazza (morto nel 1726), professore di lettere.

Alfonso II d’Aragona divenne re di Napoli dopo la morte (25 gennaio 1494) del proprio padre Ferdinando I , dal quale ereditò anche lo “jus patronatus” (diritto di patronato) sul “Complesso orsiniano” d i  S. Pietro in Galatina (cioè su: Chiesa, convento e ospedale S. Caterina).   

Egli sapeva bene che fin dal 1391 il patrimonio cateriniano era stato attribuito all’Ospedale, insieme al quale era gestito da una Curia, di cui , però, non facevano parte  frati dimoranti nel Convento, che, essendo francescani, erano votati alla povertà.

Pertanto, al fine di donare agli Olivetani ( dei quali era ammiratore molto devoto) il suddetto Complesso, esibì una bolla pontificia, la quale disponeva che il suddetto patrimonio fosse tolto all’Ospedale e unito al Convento per poter essere amministrato non più da secolari, ma  “senza lodo e senza frode” da religiosi di un Ordine possidente. In questo modo egli creò la condizione necessaria e sufficiente per rimuovere dalla Chiesa e dal convento S. Caterina i Frati Minori, in quanto appartenenti a Ordine mendicante. Questi, infatti, indotti a fare cosa grata a Sua Maestà, rinunziarono a chiesa e convento il  4 maggio 1494.

Il successivo 16 maggio, cioè solo dodici giorni dopo la rinuncia dei Francescani, il cardinale Giovanni Borgia, nipote di Alessandro VI e legato pontificio a Napoli, con lettera patente diretta al vescovo di Gallipoli, ordinò che Chiesa, convento e ospedale S. Caterina con tutti i loro beni e privilegi fossero uniti al monastero di Monte Oliveto. Ma lo stesso cardinale inserì nella stessa lettera una clausola con la quale s’imponeva agli Olivetani il rispetto della “hospitalitas”nei riguardi degli ammalati e dei poveri. In altri termini i monaci potevano utilizzare per se stessi solo una parte delle rendite del patrimonio cateriniano, poiché le stesse erano state destinate dai Fondatori al ricovero e alla cura degli ammalati e alla accoglienza dei poveri.         

Gli Olivetani presero possesso del Complesso orsiniano il 28 luglio 1494, fortemente contestati dai galatinesi, i quali da un lato subivano la perdita dell’assistenza francescana spirituale e religiosa ( di cui avevano goduto per più di un secolo, dall’altro vedevano la propria Università privata della partecipazione all’amministrazione dell’Ospedale, ottenuta dal re Ferdinando I  nel 1487.            

Alfonso II  il successivo 3 dicembre con apposito diploma confermò al Convento S. Caterina il possesso dei feudi abitati di Aradeo, Torre Paduli e Bagnolo e di quelli disabitati di Collemeto, Petrore e Sfalongano, con tutti i privilegi; ma, dopo appena due mesi, fu costretto ad abdicare a favore del figlio Ferrandino (ovvero Ferdinando II ), in quanto il re di Francia Carlo VIII era già arrivato nel Sud d’Italia. Questi, infatti, entrò a Napoli il 22 febbraio 1495 e, ventidue giorni dopo, in risposta ad una richiesta degli Olivetani, sollecitamente presentata, confermò a questi il possesso dei suddetti feudi.

Intanto i Frati Minori si appellavano al sovrano francese, sostenendo di essere stati ingiustamente cacciati da S. Caterina, in quanto Alfonso II aveva esibito “bullam surrecticiam”. Questo ricorso  in tempi brevi non ebbe alcun esito, perché Carlo VIII dopo la battaglia di Fornovo ( 6 luglio 1495) lasciò l’Italia, mentre sul trono di Napoli tornava Ferdinando II, fortemente sostenuto da Ferdinando il Cattolico, re d’Aragona e sposo di Isabella, regina di Castiglia e Léon.

Il nuovo re di Napoli morì senza figli, a soli trent’anni, il 7 ottobre 1496 e gli succedette lo zio Federico (Federico III), fratello di Alfonso II.

Intanto il soprindicato ricorso dei Francescani contro gli Olivetani non era passato inosservato, perché il cardinale Giovanni Borgia il 5 dicembre 1496 ordinò ai vescovi di Nardò e Gallipoli di decidere sulla vertenza tra i due Ordini religiosi, mentre quasi contemporaneamente (10 dicembre)  Federico III sollecitava le Autorità civili e religiose del regno a non disturbare i monaci di Monte Oliveto nel possesso del monastero S. Caterina fino a quando gli stessi due vescovi non avessero deciso sulla questione “ de justitia”.

Purtroppo la situazione politica del regno di Napoli era destinata ad un peggioramento irreversibile, in quanto il maldestro tentativo di Federico III di offrire Taranto ai Turchi, per riavere in cambio le città di Otranto, Brindisi e Trani, che i Veneziani avevano ricevuto in pegno per il denaro dato in prestito per finanziare gli aragonesi nella lotta contro Carlo VIII, spinse Ferdinando il Cattolico a stipulare col re di Francia Luigi XII, successore di Carlo VIII, il trattato di Granata (11 novembre 1500) per dividersi il regno di Napoli. Successivamente l’alleanza fra i due sovrani naufragò e ci fu la guerra franco- spagnola, che finì nel gennaio 1504 con la resa dei francesi e la vittoria di Ferdinando il Cattolico, per cui il regno di Napoli divenne Provincia spagnola, governata da un Vicerè.

Intanto, dopo la morte di Alessandro VI (13 agosto 1503) e il brevissimo pontificato di Pio III, era stato eletto il papa Giulio II (10 novembre 1503), il quale nel 1504, supplicato dagli Olivetani, ordinò ai Vicari dell’Arcivescovo di Otranto e dei Vescovi di Nardò e Gallipoli di chiudere la vertenza relativa al monastero S. Caterina con una decisione favorevole alla Congregazione di Monte Oliveto. Lo stesso Pontefice il 20 luglio 1506, contraddicendo se stesso, ordinò all’Arcivescovo di Otranto di cedere l’Ospedale S. Caterina e il relativo patrimonio feudale a un tal Bellanzio de Ungariis, togliendolo agli Olivetani.     

Questa grave minaccia agli interessi economici di un monastero del proprio Ordine indusse i monaci di Monte Oliveto da un lato a supplicare il Pontefice a recedere dalla sua decisione, dall’altro a invocare l’intervento di Ferdinando il Cattolico e infine a trattare direttamente col  de Ungariis.

Ne seguì che il Re di Spagna confermò agli Olivetani il possesso del Complesso cateriniano, mentre Giulio II ordinò ad Achille, vescovo di Città di Castello residente a Roma, di accertare se gli stessi monaci avessero titolo a possedere l’Ospedale orsiniano; ma fu risolutiva l’iniziativa del Capitolo del monastero olivetano di Galatina, il quale nominò una delegazione di sei persone, alla quale diede mandato di trattare col de Ungariis al fine di tacitarlo con un’adeguata ricompensa in denaro.      

 Tuttavia, quasi contemporaneamente,il frate minorita galatinese Pietro Colonna (1460ca.-1540 ca.).     

 Nel dedicare al re di Spagna la sua opera “ De optimo principe” ebbe cura d’invocare sui Frati Minori, sulla propria patria e sul regno di Napoli la benevolenza dello stesso re.  Non è da escludere che “ il Galatino”, così facendo, abbia voluto richiamare l’attenzione del sovrano spagnolo sulla perdita del Convento S. Caterina, subita dal proprio Ordine. E’ certo comunque che qualche mese dopo, in maniera inaspettata, ma senza dubbio d’intesa col Papa e con Ferdinando il Cattolico, entrò in  scena il cardinale Giovanni Antonio di S. Giorgio, vescovo di Frascati, il quale riuscì a mettere d’accordo gli Olivetani con i Francescani. Infatti, con atto notarile del 1° giugno 1507, fu convenuto che i primi  conservavano il possesso di beni cateriniani e l’amministrazione dell’Ospedale, ma dovevano restituire ai secondi la Chiesa e il Convento S. Caterina, insieme al giardino detto “Parco”( ma comunemente detto “ Barco”), posto all’esterno delle mura del Paese.

Il sopravvenuto accordo (detto “concordia”) fra le due Congregazioni  era stato stipulato dopo che, a causa della  guerra  franco – spagnola, c’era stata nel Salento una gran confusione , nella quale a baroni, vassalli e università era stato facile affermare presunti diritti ed appropriarsi di beni e prerogative dell’Ente cateriniano. Pertanto gli Olivetani per salvare ciò che apparteneva allo Ospedale e soprattutto per recuperare ciò che ad esso era stato sottratto abusivamente, ricorsero a Ferdinando II il Cattolico, il quale con diploma del 28 agosto 1516 mise sotto la sua protezione tutti i  monasteri della Congregazione Olivetana e in particolare quello di S. Caterina. Successivamente a quanti si presumeva fossero in possesso di beni sottratti al Complesso cateriniano il Vicerè Raimondo Cardona impose di restituire gli stessi, di pagare i censi, ecc..         

In particolare il duca di Galatina Ferdinando Castriota Scanderbegh, uomo litigioso e tracotante,   approfittando della suddetta confusione politico- amministrativa, si era sostituito al R. Fisco, percependo i pagamenti “di fochi e sali sopra li  feudi di Aradeo, Bagnolo e Torrepaduli”.   

Ma la prevaricazione più grave del suddetto duca ai danni dell’Ospedale S. Caterina riguardava l’amministrazione della giustizia, che egli esercitava, senza averne titolo, nei tre soprindicati feudi.  

Il re Ferdinando il Cattolico, su richiesta dei monaci  intervenne con appositi diplomi sia per vietare al Castriota di “esigere le funzioni fiscali nelle Terre feudali dello Spedale di S. Catarina”, sia per decretare che ogni reato che non comportasse la pena di morte o di mutilazione di membra rientrava nella giustizia civile la cui amministrazione competeva agli Olivetani.

Le sopracitate disposizioni sovrane non trovarono la completa ottemperanza dei diretti interessati, specialmente da parte del duca di Galatina. Invece il rifiuto del re di Spagna di riconoscere il diritto dei Francescani a ricevere dall’Ospedale almeno le elemosine necessarie all’esercizio e alla manutenzione del Tempio cateriniano fu bene accolto dai monaci di Monte Oliveto, che  avevano trovato nel sovrano un vero benefattore. 

Alla morte di Ferdinando II gli Olivetani si affrettarono a chiedere la conferma dei propri diritti e privilegi ai suoi successori, Giovanna di Castiglia (detta la Pazza) e Carlo d’Asburgo. Questi, consapevoli di aver ereditato il diritto di patronato sull’Ente cateriniano, risposero favorevolmente a detta richiesta con apposito diploma del 30 aprile 1517. 


I monaci di Monte Oliveto, dopo la “concordia” con i Frati Minori, erano rimasti senza convento, perciò avevano subito progettato la costruzione  del Monastero e della Chiesa S. Caterina novella.

La realizzazione di questi edifici comportava ingenti spese che, unite alle minori entrate causate dalle non poche usurpazioni subite durante e dopo la guerra franco-spagnola, crearono notevoli difficoltà finanziarie, al superamento delle quali non poteva certo giovare la progressiva esautorazione della Curia dell’Ospedale. Infatti i monaci, nonostante provenendo da altra regione non conoscessero le condizioni politiche, economiche e sociali della Terra d’Otranto, si sostituirono ai rettori del nosocomio e gradualmente tolsero ogni prestigio ai procuratori, col risultato di trovare serie difficoltà nella gestione del vasto e articolato patrimonio cateriniano e di essere malvisti dalle autorità provinciali e, soprattutto, dall’Università di Galatina.

Essi, nell’intento di migliorare le proprie entrate, chiesero ed ottennero la regia autorizzazione di rendere abitati i feudi di Petrore (1517), di S. Costantina e di Collemeto (1518). Ma la situazione economica del Convento restava deficitaria, anche perché in quel particolare periodo l’oro e l’argento provenienti dall’America diminuivano il potere d’acquisto delle monete europee, con conseguenze disastrose per le Comunità monastiche che vivevano di rendita.

In quelli anni non mancarono le donazioni di privati, che, però, non erano tali da ripristinare una certa serenità economica, anche perché  alcune di esse, essendo a favore del Monastero S.Caterina novella, non confluirono nell’asse patrimoniale dell’Ospedale, perché già nei primi decenni del ‘500 si andava costituendo un altro patrimonio appartenente in maniera esclusiva alla Comunità olivetana.

In siffatto contesto  talvolta fu anche necessario prendere iniziative i cui benefici erano senza dubbio inferiori costi. Per esempio, poiché il duca di Galatina continuava nelle prevaricazioni in ordine all’ amministrazione della giustizia  nei feudi cateriniani, si ritenne opportuno cedergli il feudo di Petrore (1525), al fine di convincerlo ad occuparsi soltanto dei reati che comportavano la pena di morte o di mutilazione di membra, come stabilito da Ferdinando il Cattolico.


Intanto l’Università di S. Pietro in Galatina  già nel 1516  aveva avviato un’azione legale presso il Tribunale della Sacra Rota, asserendo che gli Olivetani utilizzavano a loro piacimento le immense rendite dell’Ospedale e trascuravano l’accoglienza e la cura degli infermi e l’assistenza dei poveri; perciò chiedeva che l’amministrazione del nosocomio fosse tolta dalle mani degli stessi monaci e affidata ai Frati Minori e alla medesima Università.

I galatinesi avevano preferito rivolgersi al tribunale ecclesiastico e non alle Autorità civili, delle quali era nota a tutti la grande benevolenza verso i monaci di Monte Oliveto. 

Ma il 9 marzo 1517 il giudice rotale mons. Domenico Giacobacci assolse i religiosi dalle suddette accuse e condannò il sindaco e l’Università galatinesi al pagamento delle spese processuali e al “perpetuo silenzio”.                

Mentre i galatinesi lottavano per avere ripristinato il funzionamento dell’ospedale orsiniano, la piccola università di Aradeo veniva assoggettata ad un graduale e costante inasprimento del regime feudale da parte degli Olivetani, come è confermato dai seguenti fatti:

- nell’amministrazione della giustizia permettevano che il giudice e il maestro d’atti, disattendendo le norme a suo tempo ribadite da Ferdinando II , risiedessero non in Aradeo, ma in S. Pietro in Galatina, rendendo così necessario il trasferimento dei detenuti;

- accanto ai “baglivi”, preposti all’esazione delle imposte, introdussero i cosiddetti “erari”, ai quali affidavano compiti di delazione ed incarichi di angariare i sudditi, costringendoli ad effettuare prestazioni non dovute;

- imposero il pedaggio di 15 carlini su strade che in passato erano state accessibili a tutti;

- non vietavano che i loro mandriani pascolassero il bestiame nei campi dei vassalli, rifiutandosi poi di risarcire i danni arrecati alle colture;

- pretesero dai vassalli il pagamento della tassa di “erbatico”per il pascolo degli animali nei fossi che circondavano l’abitato;

- introdussero restrizioni al piccolo commercio;

- cercarono d’impedire l’imposizione di dazi a sostegno dell’economia del casale;

- per un maggiore controllo dell’università, pretesero che le assemblee popolari avessero luogo nella casa che essi avevano in Aradeo e non nella chiesa maggiore del paese, com’era sempre avvenuto.

Inoltre nel 1533 i monaci riuscirono ad impossessarsi del diritto alle decime su quasi tutti i prodotti agricoli, che in passato gli abitanti di Aradeo avevano sempre pagato alla propria Università. Infatti a questa, che era in gravi difficoltà economiche a causa di un debito contratto con un tal Gabriele Nanni di Gallipoli, consistente in 3163 staia di olio (pari a ducati 2217), essi proposero di assumersi l’obbligo di pagare detto debito, ricevendo in cambio il diritto alle suddette decime.    

L’Università aradeina, pressata dal creditore, fu costretta ad accettare la proposta e, con atto notarile del 9 novembre 1533, fece “donazione” al Monastero e Ospedale S.Caterina novella delle decime di “olio, agli, cipolle, ceci, bambace, zafferano, lenti, fave, ecc., eccettuati de’ cucumeri , de’ meloni ed altre foglie “. In detto documento, però,non era indicata la durata della donazione.

Ventidue anni dopo la medesima Università, “accortasi della sua prodiga dabbenaggine”, presentò ricorso al R. Collaterale Consiglio che, tramite il commissario Marino Freccia, propose “molti gravami contro gli Olivetani per le decime che esigevano…, e che nullamente loro erano state concesse”. Ma tutto finì con la proposta di gravami, perché “tacque quella università e nulla più si fece”( B. Papadia). 

Nonostante le maggiori entrate ricavate dal feudo di Aradeo con i nuovi balzelli e con l’esazione delle decime sui prodotti agricoli, la situazione della Comunità olivetana galatinese continuava ad essere molto precaria, soprattutto a causa delle enormi spese per la costruzione del grande Monastero e della monumentale Chiesa S. Caterina novella. Pertanto i monaci vennero a trovarsi in gravi difficoltà  quando dovettero pagare alla S. Sede la “decima” o addirittura la “quarta” parte delle proprie rendite, su richiesta di Paolo III,  pontefice dal 1534 al 1549, il quale era impegnato nella convocazione del Concilio di Trento, nel completamento della basilica di S. Pietro ed in altre in altre importanti opere   . Fu allora che, oltre a contrarre debiti, furono costretti a vendere parte del feudo di Collemeto (1539) e l’intero feudo di Bagnolo, che fu poi riacquistato per 2600 ducati nel 1545, quando invece fu venduto per 5300 ducati il feudo di Torrepaduli.   

Nel frattempo la decadenza dell’Ospedale, fortemente avvertita durante l’epidemia di peste del 1528, era divenuta intollerabile. Perciò l’Università di Galatina nel 1564, interrompendo il “perpetuo silenzio” a cui 47 anni prima era stata condannata dalla S. Rota, denunciò alla R. Camera della Sommaria la cattiva amministrazione  dei beni cateriniani effettuata dagli Olivetani, nonché il

mancato rispetto da parte di questi dell’obbligo di accoglienza e cura degli infermi e di assistenza ai poveri. L’inizio della vertenza fu incoraggiante per i galatinesi, in quanto l’Uditore di T.d.O. Bernardino S.Croce in breve raccolse una voluminosa documentazione che dimostrava la piena fondatezza delle sopracitate accuse. Quindi i monaci, essendo venuti meno all’obbligo della “hospitalitas” (imposto loro nel 1494 dal cardinale Giovanni Borgia),  correvano veramente il rischio di perdere ogni diritto sull’Ospedale e sui beni cateriniani. Ma essi, a partire dal  gennaio 1565, assistiti da valenti avvocati, misero in atto un’estenuante tattica tendente a complicare e dilazionare la vertenza.       

Gli amministratori di Galatina, temendo che gli Olivetani potessero bloccare l’istruttoria in corso, presentarono un memoriale al re di Spagna Filippo II, nel quale esposero dettagliatamente la storia del Complesso cateriniano, ma soprattutto misero in evidenza il fatto che i monaci, sebbene percepissero dal patrimonio dell’Ospedale  rendite superiori a 4000 ducati annui, erano venuti meno all’osservanza della “hospitalitas” e avevano anche negato ai Francescani il denaro necessario all’esercizio e alla  manutenzione della Chiesa.

Il 5 novembre 1565, il Re dispose che si occupasse della questione il vicerè Parafan de Ribera, il quale, tramite il Procuratore fiscale, incaricò il Preside di T.d.O. di disporre una nuova ispezione nell’Ospedale. Quando questa fu effettuata, si ebbe la certezza che il nosocomio, ormai privo di tutto, era  ridotto a deposito di vino e olio, appartenenti al monastero S. Caterina novella.  

Intanto anche i Frati Minori per reclamare i loro diritti si erano inseriti nella lite fra l’Università e gli Olivetani,  presentando al R. Collaterale Consiglio copie di documenti dell’epoca orsiniana. Ma l’avvocato di parte avversa, sfruttando il fatto che una di dette copie presentava un’abrasione, riuscì a protrarre l’istruttoria chiedendo la pergamena originale. Con cavilli di questo genere, i monaci di S.Caterina novella misero in atto una strategia dilazionatoria, con la quale riuscirono a insabbiare il processo che non fu ripreso neppure quando il sacerdote galatinese Francesco Maria Vernaleone ne informò i Padri del Concilio di Trento.

 Anche gli abitanti di Bagnolo tra il ‘400 e il ‘500 si erano sottratti ad alcuni obblighi feudali, approfittando del disordine provocato dalle guerre in corso, perciò l’abate Pier Paolo di Galatina nel 1581 intentò una causa contro di loro, che si concluse in breve tempo a favore degli Olivetani, rendendo cosi palese il funzionamento a senso unico della giustizia nel Vicereame di Napoli.   


Una svolta importante nell’amministrazione del Monastero e della Chiesa S. Caterina novella la si ebbe sotto la direzione di P. Gaspare Frattasi di Napoli, abate dal 1636 al 1642. Egli fu poi abate generale della Congregazione (1643-1645) e successivamente, dopo aver diretto altri monasteri , fu di nuovo a Galatina nel biennio 1648/1649. Morì nel 1654 nel Monastero S.Caterina novella, del quale era stato nominato abate per la terza volta.

Nei primi decenni del XVII secolo gli Olivetani di Galatina, dopo aver inasprito il regime feudale su Aradeo, alienato il feudo di Petrore, quello di Torrepaduli ed altre  proprietà, insabbiato le cause con le università di Aradeo e Galatina, concluso a proprio favore la vertenza con i vassalli di Bagnolo e aver terminato la costruzione di monastero e Chiesa S.Caterina novella, erano in condizione di guardare al futuro della propria Comunità. Pertanto nel 1636, all’inizio dell’abbaziato di Gaspare Frattasi, crearono per il feudo di Aradeo un nuovo magistrato, detto “governatore”, al quale l’abate con un particolare contratto d’affitto trasferì l’intera amministrazione politica ed economica del casale e del territorio. In tal modo i monaci, mentre ottemperavano alla bolla “De censibus”di Pio V ( che vietava a vescovi ed abati la gestione diretta di feudi ), potevano evitare di essere direttamente coinvolti nelle frequenti e incresciose liti con i vassalli e con la università.

Il primo governatore di Aradeo fu P. Giovanni da Napoli,che rimase in carica per ventisei anni, durante i quali il Monastero di S.Caterina novella pervenne al massimo grado di ricchezza della sua storia. Egli, infatti, acquistò numerosi immobili privi di vincoli feudali, intestandoli a se stesso. Ma nel 1662, al termine del suo mandato,con atto notarile, cedette tutti i beni acquisiti, ripartendoli tra il Monastero S. Caterina novella e quello di S. Francesca Romana di Vico Equense. Al primo, oltre a una grande “chiusa”con 70 orte di vigneto e circa 2000 alberi di ulivo, assegnò altri 46 appezzamenti di terreno, i censi annui su alcuni beni immobili e le decime su 6 campi coltivati; al secondo monastero cedette 32 poderi variamente coltivati, tra cui una masseria.

Lo stesso P. Giovanni nell’abitato di Aradeo acquistò numerose vecchie case, le demolì e sul suolo ricavato fece costruire la Villa baronale (oggi palazzo Grassi), sede dell’amministrazione olivetana, dotata di sala di rappresentanza, cappella, camere, magazzini, stalle, cucina, ecc. . Di fronte alla Villa fece aprire una piazza con al centro una colonna, tuttora esistente, sormontata dalla statua di S.Giovanni Battista.  

La giustificazione di tanto successo nell’amministrazione del feudo di Aradeo la fornì lo stesso governatore, affermando di “…Haver sempre applicato con compre di stabili ogni denaro pervenutogli dall’ intrade di detto feudo” . Questa affermazione mette bene in evidenza il fatto che i proventi del patrimonio cateriniano non venivano per niente utilizzati per il funzionamento dell’Ospedale, poiché gli Olivetani nel ‘500 erano stati impegnati nella costruzione del proprio monastero e nel ‘600 erano interessati a rendere lo stesso sempre più ricco.   

Nei 26 anni di attività amministrativa in Aradeo di P. Giovanni di Napoli sono compresi i tre periodi di abbaziato di P. Gaspare Frattasi, il quale fece restaurare, ingrandire ed abbellire la Chiesa S. Caterina novella (v. epigrafe nella retrofacciata) e fu, fra l’altro, definito “…affabile verso i bisognosi e i poveri, veramente pio,veramente misericordioso nella cura dei malati…”(v. epigrafe sulla tomba, nel quinto arcone del lato destro della chiesa), ma nulla fece per rimettere in funzione l’Ospedale orsiniano.

Poiché non è pensabile che un religioso della levatura dell’abate Frattasi potesse ignorare le secolari  tensioni tra il suo Monastero e l’Università di Galatina, la quale accusava gli Olivetani di persistere nel venir meno all’obbligo della “hospitalitas” nei riguardi degli ammalati e dei poveri, è giocoforza ammettere che anche i rappresentanti più illuminati e caritatevoli della Congregazione di Monte Oliveto erano convinti che, avendo avuto in dono da re Alfonso II  il patrimonio cateriniano, avessero indiscutibilmente il diritto di utilizzarne i proventi al fine di fondare una grandiosa abbazia. Era, dunque, estranea al carisma olivetano l’idea di dover destinare detti proventi alla gestione e al potenziamento dell’Ospedale S. Caterina, come disposto dal Fondatore e da tutti coloro che avevano contribuito all’arricchimento del patrimonio stesso. Per quanto poi riguardava l’obbligo di assistere i bisognosi (infermi o indigenti) è evidente che gli stessi Olivetani ritenevano necessaria e anche sufficiente l’ottemperanza alla propria regola monastica, la quale disponeva: “ le elemosine vanno fatte quotidianamente alla porta di ogni monastero…, però con misura e secondo le possibilità della casa religiosa, fatte salve le necessità dei frati e manutenzione della stessa casa”.   

Infine, relativamente ai ricorsi dei galatinesi ai tribunali, i monaci sapevano bene di poter contare sul riconoscimento dei diritti e dei privilegi acquisiti e, perché no, sulla capacità dei propri legali di sfruttare farraginoso funzionamento della giustizia spagnola.


Dopo la metà del XVII secolo si riaccese la lite tra Olivetani e amministratori galatinesi. Questi, oltre a contestare ancora il mancato funzionamento dell’Ospedale orsiniano, denunciarono gli stessi religiosi insieme a i loro dipendenti (capitani, baglivi, erari, coloni) di non pagare le tasse all’Università di Galatina e al R. Fisco. Quest’ultimo addirittura accusò nel 1656 i monaci di non aver mai pagato sia la tasse relative alla giurisdizione penale di Aradeo, sia quelle quindicennali (quindenni) dovute alla R. Corte dai monasteri possessori di feudi.   

La denuncia del R. Fisco finì insabbiata, mentre il reggente delegato del R. Collaterale Consiglio, don Diego Soria, il 26 aprile 1683  emise, in ordine alle accuse mosse dai galatinesi, un decreto che esentava da ogni tassa i dipendenti del Monastero S.Caterina novella.  

L’Università di Galatina reagì chiedendo che la causa fosse trattata dai giudici della R.Camera della Sommaria, ai quali presentò un esposto, in metteva in evidenza che il numero di “fuochi”, in base al quale essa pagava le imposte al R. Fisco, risultava maggiorato di 24 unità per la presenza in paese di dipendenti degli Olivetani, considerati in servizio nell’Ospedale orsiniano, il quale era invece da tempo del tutto inefficiente e, quindi, privo di personale.   

 Gli olivetani si difesero tirando in campo le disposizioni relative ad antichi privilegi e soprattutto chiedendo chela vertenza fosse risolta dal R. Collaterale Consiglio.    

A questo punto il sindaco pro tempore di Galatina, Giovanni Tommaso Mongiò, ripresentò nel 1685 la denuncia, corredandola di testimonianze, rese dinanzi ad un notaio, comprovanti che il dormitorio dell’Ospedale era fatiscente e privo di letti, mentre altri locali dello stesso nosocomio erano stati trasformati in depositi o addirittura in stalle. Purtroppo anche questa volta tutto finì nelle mani del suddetto don  Diego Soria, il quale ordinò (1687) all’Uditore di T.d.O. di dare esecuzione al proprio decreto del 1683, cioè di vietare ai galatinesi di molestare i dipendenti degli Olivetani.                   Ma l’Università, decisa a non mollare, sollecitò le Autorità fiscali di T.d.O. a riaprire la vertenza sulle evasioni fiscali dei monaci. Fu così accertato che gli stessi non avevano pagato le imposte       ( per es.: adoa , quindenni, ecc.): dal 1500 al 1545 per il feudo di Torrepaduli, dal 1500 al 1530 per il feudo di Petrore, e dal 1500 fino alla conclusione della causa in corso per i feudi di Aradeo, Bagnolo, Collemeto e Sfalongano. Pertanto la R. Camera della Sommaria informò(1689) l’abate del Monastero S. Caterina novella che, su richiesta del R. Fisco, la questione del pagamento delle imposte era stata passata agli uffici bancari che ne curavano l’esazione. Ma lo stesso abate nel 1691 si rivolse a don Diego Soria chiedendo, ancora una volta il rispetto degli antichi privilegi dell’Ospedale.               

Contro le immutate pretese dei monaci il sindaco di Galatina, Accursio Mezio, presentò ai giudici un dettagliato memoriale, in cui dimostrava che l’Università era costretta a pagare le tasse per i “fuochi” relativi a capitani, baglivi, erari, coloni, ecc., i quali erano ad esclusivo servizio del Monastero S. Caterina novella, in quanto l’Ospedale orsiniano era completamente inattivo da numerosi decenni. Questa volta, però, il delegato del R. Collaterale Consiglio, Fulvio Salzano, sulla base delle dovute informazioni, fatte assumere dal reggente Soria, e delle deposizioni di alcuni testimoni galatinesi, finalmente ordinò (1691) ai dipendenti di detto Monastero di pagare le imposte come tutti gli abitanti di Galatina. A questo punto sembrava proprio che fosse giunta a conclusione un’annosa controversia, invece sei anni dopo (1697) la questione pendeva ancora presso il R. Collaterale Consiglio.   


Gli amministratori e i cittadini galatinesi, dopo gli insuccessi delle vertenze promosse contro gli Olivetani, erano convinti che solo in seguito a un profondo cambiamento del clima politico sarebbe stato loro possibile ottenere qualche successo nella ormai secolare lotta per la riattivazione dell’Ospedale S.Caterina. Un tale cambiamento sembrò concretamente possibile allo scoppio della guerra di successione spagnola, avvenuto nel 1700, quando morì senza figli il re di Spagna Carlo II. Fu allora che nelle Province napoletane si andarono formando due partiti: il primo favorevole a Filippo di Borbone che era asceso al trono in virtù del testamento del sovrano defunto, il secondo a sostegno di Carlo d’Asburgo, figlio dell’imperatore d’Austria Leopoldo I. Il secondo partito si rivelò subito più seguito del primo, e frequenti divennero in tutto il Viceregno le manifestazioni  filoasburgiche, specialmente quando le truppe austriache iniziarono la loro marcia verso il Sud d’Italia. Approfittando dell’inevitabile confusione del momento, il 12 settembre 1705, i galatinesi con a capo il Sindaco, aiutati da governatore, cancelliere e soldati del duca Spinola, tentarono d’impadronirsi dei locali dell’Ospedale cateriniano. Il successivo 25 ottobre gli Olivetani, definendo l’episodio “attentato”, presentarono denuncia al R. Collaterale Consiglio, il cui reggente delegato chiese ovviamente informazioni.   

Sulla base delle prove raccolte, i giudici ritennero fondate le ragioni dei galatinesi e a nulla approdarono le azioni dilazionatorie messe in atto dai monaci. Infatti nel 1706 la R. Camera della Sommaria fece sequestrare l’intero patrimonio cateriniano e ne affidò la gestione al Sindaco di Galatina, coadiuvato da due suoi concittadini. Quindi l’Università galatinese aveva scelto bene il momento per innescare quella che nei documenti è indicata come “l’atrocissima lite “, che si protrasse per almeno quattro anni. Infatti, tra la fine del 1709 e l’inizio del 1710, sotto il governo del vicerè austriaco cardinale Vincenzo Grimani, la R. Camera della Sommaria propose il dissequestro dei beni cateriniani e reintegrazione degli Olivetani nella gestione dell’Ospedale orsiniano alle seguenti condizioni:   

“ 1) l’abate di S. Caterina novella doveva procurare al R. Fisco una cauzione laicale per il pagamento di 4000 ducati annui; 2) ogni anno i monaci, sentiti il R. Fisco e l’Università di Galatina, dovevano presentare alla R. Camera della Sommaria l’effettivo bilancio della gestione dell’Ospedale; 3) un incaricato della stessa Università doveva essere ammesso al controllo dell’amministrazione del nosocomio; 4) ai monaci era permesso spendere annualmente solo 700 ducati per il mantenimento della propria comunità e la manutenzione della Chiesa S. Caterina novella, mentre il resto delle rendite doveva essere devoluto a beneficio dell’Ospedale e di altre opere di beneficenza.”

Le condizioni furono accettate dalle parti in causa e il 12 gennaio 1710 la R. Camera della Sommaria emise il decreto di dissequestro. Così potè avere inizio il ripristino del funzionamento dell’Ospedale orsiniano, su cui costante fu la vigilanza dell’Università, che per circa due secoli aveva tenacemente lottato per assicurare cure agli infermi e assistenza ai poveri della Città. 

Successivamente il funzionamento del nosocomio fu ripristinato con relativa regolarità durante il governo dei vicerè austriaci, ma poi migliorò notevolmente a partire dal 1734, cioè con l’avvento al trono di Napoli di re Carlo III di Borbone, il quale, come è noto, era contrario all’ingerenza degli ecclesiastici negli affari di Stato. In questa fase si distinsero per la puntuale attenzione alla assistenza dei poveri e alla cura degli ammalati gli abati P. Marcello M. Muscettola (1717), P. Ambrogio M. Piccolomini (1720), P. Ramiro Perrone (1724) e soprattutto P. Pier Felice M. Frisari  ( dal 1769 al 1807 ). Di quest’ultimo B. Papadia ha scritto: “…D. Pier Maria Frisari ha con lodevole cura posto in ordine migliore questo Ospedale, e con magnificenza rifatto il frontespizio del medesimo con alcune camere interiori, che presteranno commodo più proprio a’ poveri infermi, che ivi saranno accolti per guarire de’ loro mali.” Ma purtroppo proprio l’ottimo P. Frisari, costretto dalle leggi eversive emanate dal re Giuseppe Bonaparte, ebbe l’ingrato compito di chiudere definitivamente l’Abbazia S. Caterina Novella e consegnarla all’Erario col suo patrimonio e con i feudi appartenenti all’Ospedale S. Caterina. Era il 17 febbraio 1807.

Nell'anno 2007 ricorre il V centenario dall’inizio della costruzione in Galatina dell’Abbazia S. Caterina Novella, della quale rimangono una diecina di ambienti ( dei quaranta che costituivano il Monastero ) e la grandiosa Chiesa, attualmente sede della Parrocchia S. Biagio.    

Se oggi si ammira questo imponente, artistico Tempio (riconosciuto monumento nazionale nel 1968 ed in parte restituito all’antico splendore dal recente restauro) lo si deve alla munificenza degli Olivetani e soprattutto ai sacrifici ed alle umiliazioni che la sua edificazione è costata agli abitanti  dei feudi cateriniani, sottoposti ad esoso regime feudale, e alla parte più povera e bisognosa dell’antica popolazione di Galatina, privata per circa due secoli da accoglienza e cura nell’Ospedale, per essa edificato da Raimondello Orsini del Balzo. 


                                                                                                           Pietro Congedo